ARTE E DEGRADO/Sicilia, il garage per dirigibili di Augusta

 Augusta (Siracusa), 22 dicembre 2024

   Andando a zonzo sulla costa sud orientale della Sicilia, mi sono ritrovata davanti a un incredibile retaggio storico-militare: un hangar per dirigibili. Si trova nella rada di Augusta, città strategica della marina militare e uno dei porti di sbarco degli Alleati nel luglio 1949.

L'hangar visto dal retro (Foto di Maria Grazia Coggiola)

   In realtà ero andata a visitare il borgo marinaro di Brucoli, meta iper turistica, poi sono stata attirata dal profilo della raffineria, che domina il paesaggio di Augusta. L'impianto, ex Esso ora algerino, è un pezzo importante dell'economia siciliana e anche potenzialmente una bomba ecologica. Penso che bisognerebbe praticare un turismo dell'economia reale, oltre che quello delle bellezze del Balpaese, tanto per far capire alla gente da dove arriva la benzina oppure la bistecca che compra al supermercato. Ma non voglio divagare. 

Foto tratta dal libro Più leggero dell’aria - Breve storia del Dirigibile di Raffaele Migneco Omodei

   Tra le ciminiere della raffineria e le petroliere abbandonate nella rada spicca un edificio curioso, il cui uso è veramente difficile da immaginare nella nostra era. E' appunto un garage per dirigibili costruito nel 1917 quando si pensava che questi "palloni volanti" potessero essere dei validi mezzi di trasporto aereo. E' uno dei pochi in Italia sopravissuto ai bombardamenti e, nella sua specificità, è anche un'opera architettonica di valore. Da lontano somiglia a un tempio greco e sfido molti a capire a che cosa serviva. Oggi l'hangar e l'intero parco che lo circonda sono abbandonati, una scandalosa incuria, imputabile al fatto che l'area nel 2012 è diventata zona militare. Prima di allora, leggo nelle cronache locali, la zona era stato bonificata e trasformata in un parco pubblico.

   La storia dell'hangar è ben documentata da ricerche storiche (L'Hangar per dirigibili di Augusta di Ilario Saccomanno) e anche un documentario (La Casa dei Dirigibili, regia di Lorenzo Daniele con la regione Sicilia). La costruzione in cemento armato fu affidato all'architetto Antonio Garboli di Brindisi ed è in linea con lo stile del tempo che ha in nello svizzero-francese Le Corbusier il suo massimo esponente.

   Fu voluto dalla Marina Regia per contrastare i sommergibili tedeschi che imperversavano lungo le coste orientali siciliane. I dirigibili erano più efficaci degli idrovolanti a individuare e colpire gli U-boot tedeschi, per la loro autonomia di volo e per essere in grado di volare a bassa velocità sull'obiettivo. La posizione di Augusta è strategica per il controllo dello stretto di Messina. L'hangar fu progettato per ospitare dirigibili di 12 mila metri cubici, di media grandezza, che dovevano appunto pattugliare le rotte a sud della Sicilia. 

   Realizzato dalla Società Anonima Cementi Armati e Costruzioni Ing Antonio Garboli in cemento armato, materiale "innovativo", l'hangar era una assoluta novità per l'epoca. Però, come spesso accade, i lavori si trascinarono più del previsto, nonostante l'impiego di prigionieri austriaci, e fu ultimato solo nel 1920 quando la guerra era terminata. Quindi l'hangar di Augusta non svolse mai la sua funzione originale. Poi dopo il famoso incidente dello Zeppellin Hinderburg nel 1937, il più grande oggetto volante mai costruito, i dirigibili caddero in disuso. Erano in effetti delle bombe volanti e l'atterraggio era decisamente complicato. Però hanno fatto un pezzo di storia delle esplorazioni soprattutto durante il Ventennio, con le famosa trasvolate di Umberto Nobile sul Polo Nord, l'ultima finita in tragedia.

   Ho fotografato l'hangar dal malandato cancello di ingresso. Peccato vedere così tanta incuria e indifferenza. Non solo perché la storia di un luogo, per quanto controversa, merita un po' di rispetto, ma anche per le potenzialità di uso di un edificio che è sopravissuto a due guerre e a un terremoto. E che è anche un mirabile esempio di architettura.


MEDIA/Guerra, quando la pubblicità è indecente

Sappiamo tutti che senza pubblicità i giornali non possono sopravvivere. E' già un miracolo se la carta stampata riesca a campare con paginate di inserzioni. Però ci dovrebbe essere un limite, non al contenuto, ma al posizionamento.Per esempio, trovo indecente che sotto un articolo di cronaca sui bombardamenti a Beirut compaia una pubblicità che celebra il confort domestico. E' quello che ieri succedeva sul Corriere della Sera. Titolo: Raid nel cuore di Beirut: nove morti. Israele espande le operazioni a Sud. Sotto l'articolo campeggia lo slogan Joyful Living (Vivere felici, sarebbe più o meno) e una gioiosa ragazza in minigonna tranquillamente seduta in salotto.


Un accostamento decisamente di cattivo gusto che la dice lunga di quanto siamo assuefatti alle notizie di massacri, bombardamenti, morti, ecc.  Sono convinta che nel "cuore" di Beirut, non siamo a Gaza, probabilmente esistono salotti simili con prodotti disegnati dalla marca italiana in questione. E anche gli occupanti di questi salotti potevano forse praticare il joyful living prima delle "operazioni" di Israele (da notare il linguaggio rispettoso del Corsera).    

VIA FRANCIGENA/ Il Priapo ermafrodita di Formello

Formello (Lazio),  12 settembre 2014

   La penultima tappa della Via Francigena, per la precisione la quarantaquattresima, passa da Formello, comune nel parco archeologico etrusco di Veio. È una sosta obbligatoria per i pellegrini diretti a Roma, che dista solo una trentina di chilometri. Anche io mi sono fermata in questo incantevole borgo quando ho percorso il tratto della Francigena da Siena a Roma.


   Pare che l’intera zona fosse una immensa necropoli estrusca saccheggiata nei decenni dai cosiddetti ‘tombaroli’. Tra i ritrovamenti più importanti c’è un’anfora del VI secolo AC con l’alfabetario etrusco che ora si trova nel museo di Villa Giulia a Roma.
   Ma non sono gli etruschi che hanno attirato la mia curiosità a Formello, ma una statua di Priapo ‘femminiello’ che si trova nel palazzo del municipio.
   La scultura, databile tra il 150 e il 175 DC e probabilmente proveniente da una villa romana, raffigura il dio Priapo in vesti femminili nell’atto di mostrare le pudenda. Un transessuale esibizionista ante litteram. Mi ha ricordato quella volta che su un treno diretto a Mumbai un gruppo di eunuchi (gli hijra) avevano alzato il sari davanti al viso dei passeggeri dello scompartimento minacciandoli di chissà cosa se non davano loro delle rupie.
   La statua del Maripara, cosi è chiamata, è stata pesantemente vandalizzata nei secoli. L'ermafrodita Priapo è stato decapitato ed evirato. Fino a un secolo fa l’esuberante dio, che è protettore degli orti, greggi e api, era sulla piazza di Formello. Poi venne rimosso perché ‘privo di pudore’ e chiuso in uno scantinato. È riapparso dopo la seconda guerra mondiale nel giardino comunale e li ha perso la testa. Infine ha trovato la sua attuale sistemazione al primo piano di palazzo Chigi e lo si può ammirare quando si esce dal museo dell’Agro Veientano.
   Non ho trovato molte spiegazioni sul significato di questo travestimento che lascia intendere una bisessualità della divinità simbolo della potenza sessuale maschile. Nella mitologia greca e romana Priapo è raffigurato con un organo genitale deforme, è associato ai riti dionisiaci e alla fertilità agricola. Perché il Priapo di Formello abbia le sottane per me rimane un mistero. Pero è estremamente moderno in un epoca in cui l’identità non binaria non sconcertava nessuno.

Manzoni/ L'epitaffio per la figlia Matilde privata delle virtù del sesso

 Siena,  2 settembre 2024

   Ma cosa intendeva Alessandro Manzoni quando ha scritto sulla tomba della figlia Matilde che "lasciava desiderio di sè per una vita bella di tutte le virtù che sublimano il sesso". Ho riletto i versi dell'epigrafe almeno tre volte, confusa e un po' scioccata. Sublimazione del sesso? Ma che voleva dire? Che la figlia Matilde, morta di tisi "nell'ultimo anno del quinto lustro" (quindi a 25 anni), nubile e ancora vergine, anelava a una vita da cortigiana?  Penso che Manzoni intendeva il sesso femminile, ovviamente, però il verso non è di quelli migliori usciti dall'illustre autore dei Promessi Sposi.  

La tomba di Matilde Manzoni nel convento della basilica di Santa Maria dei Servi a Siena 

   Ho scoperto la tomba di Matilde Manzoni, ultima dei nove figli del grande scrittore lombardo, totalmente per caso a Siena, nel chiostro della basilica di Santa Maria dei Servi, che sorge appunto in piazza Manzoni.  I frati mi hanno dato ospitalità per una notte nella foresteria dopo aver presentato le "credenziali" di pellegrina sulla via Francigena. Nel fantastico convento medioevale, mentre aspettavo di essere accompagnata nel dormitorio, mi sono imbattuta in questa lapide con questa bizzarra iscrizione attribuita a Alessandro Manzoni. 

   La tomba mi ha intrigato e ho fatto un po' di ricerca. La povera Matilde fu praticamente abbandonata dal padre, lo si conosce dai suoi diari (pubblicati nel 1992 da Adelphi con il titolo Journal, a cura di Cesare Garboli). Orfana di madre ad appena tre anni, chiusa in un convento di clausura fino a 16 anni e poi portata da una sorella in Toscana, la povera Matilde è morta il 30 marzo 1856 senza vedere il padre che manco rispondeva alle sue lettere. Era malata da ben quattro anni e Manzoni lo sapeva. L'ha fatta tumulare nel convento insieme a una sua nipotina morta prematuramente. 

  Nel febbraio 1855, un anno prima di morire tra le braccia della sorella Vittoria,  scriveva nel suo diario:  "Ho avuto gran momenti di malinconia, te lo confesso, m’ero proprio scoraggiata, […] Pensavo tante volte: quando starò peggio, scriverò a papà che per carità venga, non posso proprio morire senza rivederlo e senza che mi conforti colle sue parole e la sua benedizione!...Vero, caro papà che se dovessi star male tu verresti?» (febbraio 1855).


FILM/ Guarapo, quando i migranti clandestini partivano dalle Canarie

Santa Cruz de Tenerife (Canarie Occidentali), 23 marzo 2024

    Coltivo un piacere quasi perverso per i cinema d'essay. Stanno scomparendo come ghiaccio al sole, ma quando ne trovo uno mi ci fiondo come se non ci fosse un domani.  Ieri ero appena arrivata con la mia barca a vela Maneki alla marina di Radazul, nel nord di Tenerife, a dieci chilometri dalla sua capitale Santa Cruz. Nella mia isola preferita, La Gomera, non ci sono cinema, quindi ogni volta mi trovo in una grande città la prima cosa che faccio è cercare una sala cinematografica. A Santa Cruz di Tenerife ho trovato il "Price Prime", sulla rambla, in pieno centro, sopravissuto miracolosamente alle multisale degli shopping mall. Un tizio che gentilmente mi ha caricato mentre facevo autostop (il bus non passava e non volevo perdermi la proiezione) pensava fosse chiuso da tempo e non si ricordava manco dove fosse. Il che non ha fatto che aumentare il mio godimento. 

   Il Price Prime è in calle Salamanca, ha una facciata Anni Settanta e trasuda quell'aria retrò che promette davvero bene per un cinema di qualità. Per un colpo incredibile di fortuna in cartellone c'era una pellicola del 1989, "Guarapo", che racconta una storia ambientata proprio a La Gomera. Un segno del destino, un film sulla mia isola preferita e che film! Non ho alcuna idea perchè nella programmazione del Price Prime vi è  un film di ben 25 anni fa. Forse è rimasto in cartellone dall'inaugurazione della sala oppure è sponsorizzato dall'ufficio turistico, visto che fa vedere La Gomera in tutto il suo splendore. 

La locandina del film
  Ancora incredula compro immediatamente il biglietto (8 euro), non si sa mai che vadano esauriti, mi armo di pop corn e entro nella sala di proiezione. Sola, ero sola, praticamente una proiezione privata. Questa è la realtà dei cinema d'essay, quello di Las Palmas, a Gran Canaria, ha chiuso per il Covid e non ha mai riaperto, e questo ha i mesi contati, penso tra me e me sgranocciando il pop corn.  

   "Guarapo" è un film che non esiterei a definire neorealista. E' dei fratelli Teodoro e Santiago Rio, "padri del cinema canario", sconosciuti fuori dell'arcipelago, che all'epoca avevano realizzato una trilogia sulla storia delle isole, in particolare sui problemi sociali. Una cosa di super nicchia, da vecchi intellettuali di sinistra, impensabile ai giorni nostri. La storia racconta di come si viveva a La Gomera sotto il franchismo e in particolare quando la vita sociale e economica era dominata dai latifondisti in combutta con il potere militare e la Chiesa. Per i poveri braccianti, come Benito, detto Guarapo perché era particolarmente abile a estrarre la linfa delle palme canarie che serve per fare uno sciroppo dolce e anche un liquore, non c'erano speranze di migliorare la propria esistenza se non quella di emigrare clandestinamente in America Latina. E' il destino di molti giovani che nel Dopoguerra attraversarono l'Atlantico in  cerca di fortuna, in Venezuela soprattutto, e che non sono mai più tornati. Il film è dedicato a questi migranti che furono costretti ad abbandonare le loro famiglie per fuggire alla miseria e a una vita di angherie e sopraffazioni. Descrive una povertà e disagio sociale simile a quello del mezzogiorno italiano. In "Guarapo" c'è una famiglia ricca, quella di don Luis Ventura, che ha un potere assoluto sui contadini che lavorano nelle piantagioni di banane (e anche sulle loro mogli), un parroco corrotto, un commissario di polizia alcolizzato e la repressione franchista che eliminava i dissidenti e proibiva l'immigrazione. Le scene sono ambietate nei luoghi più suggestivi della isola, come erano tre decenni fa prima dell'arrivo del turismo. Bellezze da brivido che ancora oggi esistono come alcuni sentieri che ho riconosciuto della foresta del Cedro e dei dirupi intorno al Roque de Agando. Il "silbo", il fischio che i gomeri usano (ancora oggi) per comunicare da una valle all'altra, è onnipresente ed è usato come linguaggio criptato per aiutare il ribelle Guarapo a fuggire alla polizia e a imbarcarsi su una goletta diretta in Venezuela.

   Non è ovviamente un film da Oscar, ma per chi conosce La Gomera, i suoi paesaggi e le sue tradizioni, è assolutamente da vedere. Non ci sono i sottotitoli, ma lo spagnolo è abbastanza comprensibile anche se è dialettale. Ma ancor più rilevante è la sua documentazione di un immigrazione che oggi è presente ma in senso contrario. Migliaia di Guarapo africani in questi anni sono approdati sulle coste canarie con dei barconi pagati a caro prezzo, anche loro in fuga da miseria e dittature, lasciando indietro le loro radici, amori, legami familiari. Stessi disperati ma su un'altra sponda dell'Atlantico.