Port Blair, 9 marzo 2015
Incredibile come anche qui in mezzo all’oceano, a oltre mille chilometri, abbiano riprodotto una tipica citta’ indiana con il traffico assordante, clacson, lavori in corso mai finite, fogne puzzolenti che costeggianti la strada, baracche dove si beve il te’ o acqua di cocco.
Insomma le Andamane sono India, niente paura, anche se somigliano come natura piu’ alla Thailandia.
Port Blair e’ una miscela di etnie, razze e religioni, con una prevalenza forse di bengalesi. Una India in miniatura, con tutti i pregi e difetti. Forse un po’ piu’ rude. D’altronde i coloni indiani inviati qui decenni fa non hanno avuto vita facile.
Da pochi anni poi le Andamane sono entrate nel circuito turistico e probabilmente gli isolani hanno cominciato ad annusare facili guadagni. La tendenza e’ di fatti di spremere il turista senza pero’ offrire dei servizi decenti e soprattutto proporzionati al prezzo.
Quindi Port Blair, con i suoi mezzo milioni di abitanti, rimane un punto di transito in attesa di salire su un traghetto per Havelok o qualche altra isola. Onestamente , anche io, che pensavo di fermarmi un paio di giorni, me ne sono andata dopo 24 ore. Non e’ un posto molto accogliente almeno per chi è appena arrivato.
La prigione di Port Blair
Ho visitato la famigerata prigione degli inglesi, una sorta di gulag in mezzo all’oceano o una Guantanamo ante litteram, ora trasformata in un museo dedicato alla lotta per l’Indipendenza. Qui infatti sono stati internati e morti per le torture molti ‘dissidenti’ indiani. E’ una storia che non si conosce. Perche’ quando pensiamo al movimento di liberazione indiano pensiamo soprattutto al Mahatma.
Il carcere, costruito tra il 1896 e i 1905, ha un’architettura speciale, e’ a raggiera, dal centro partivano sette ali per un totale di 698 celle. In questo modo nessun carcerato vedeva gli altri e dal centro i secondini potevano facilmente controllare tutti i corridoi. Sono rimaste in piedi tre ali che sono aperte ai visitatori.
C’e’ anche il braccio della morte e l’area delle impiccagioni. E’ una casupola con tre forche e tre botole. Mi chiedo se ancora oggi nelle prigioni indiane si usa lo stesso sistema di impiccagione.
Nei cortili sono state allestite delle mostre con le foto degli intellettuali indiani incarcerati qui e la storia del carcere da quando e’ stato costruito a quando e’ stato trasformato in un museo. Sono anche esposti alcuni strumenti di tortura.
Anche se ora e’ un museo, e ci sono perfino coppiette che usano le celle per appartarsi, nell’aria e’ rimasta la sofferenza. Ho pensato al dolore di migliaia di esseri umani rinchiusi qui per anni, in terribili condizioni, costretti ai lavori forzati per disboscare la foresta e costruire nuovi ali della prigione. Ho rabbrividito e sono uscita con uno strano senso di colpa in quanto proveniente dalla vecchia Europa. Come quando penso all’Inquisizione a Goa. Nessuno ha mai chiesto scusa.
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