E' un classico che in India i guasti non si riparino mai al primo colpo. E cosi' dopo 24 ore il blackout si e' ripetuto. E questa volta con effetto domino sulle altre linee dell'alta tensione che servono Calcutta e gli altri posti del nord est. I numeri sono stati ancora piu' impressionanti: 600 milioni di persone senza luce, anche se non saprei quanti di questi abbiamo una lampadina in casa. Il piu' grande blackout della storia dell'umanita'. Un record olimpico insomma conquistato dall'India che a Londra ha finora soltanto rimediato un bronzo.
Ovviamente e' facile oggi fare ironie sulla nuova ''super power'' (super potenza) senza ''power'' e sullo sviluppo caotico e disordinato dei giganti asiatici.
Non nego che ''la madre di tutti i blackout'' non abbia portato gravi disagi ai cittadini, pendolari, malati negli ospedali e perfino i poveri minatori di carbone del Bengala bloccati nel sottosuolo e poi tirati fuori soltanto dopo ore.
Ma sono davvero convinta che un guasto del genere, possibilissimo anche nei Paesi avanzati (ricordiamoci cosa e' successo in Giappone con le centrali piu' ''sicure'' del mondo) avrebbe sicuramente creato un caos inimmaginabile con conseguenze tragiche.
Lo ricordo, i blackout fanno parte della vita quotidiana in India, in Pakistan (13 o 14 ore al giorno a volte) , Nepal e Bangladesh. Ce ne sono stati anche di piu' lunghi. Mi ricordo in periferia di Delhi di essere stata tre giorni senza corrente. Per inciso, la Borsa di Mumbai ieri ha perfino chiuso in rialzo.
Miracolosamente (o forse e' normale?) anche i computer e i call center di Gurgaon hanno retto. Dall'outsourcing dipendono le banche della City londinese. Si immagini che succede se vanno in tilt. L'era digitale dipende sempre dalla vecchia elettricita'.
Invece di dare addosso all'India, invece bisognerebbe cominciare a riflettere sulla nostra interdipendenza tecnologica e sulle cosiddette ''criticita'''. Un guasto in India, polo informatico mondiale, non e' solo un problema d'immagine per New Delhi, ma mette in gioco la sostenibilita' del nostro modo di vivere.
Ovviamente e' facile oggi fare ironie sulla nuova ''super power'' (super potenza) senza ''power'' e sullo sviluppo caotico e disordinato dei giganti asiatici.
Non nego che ''la madre di tutti i blackout'' non abbia portato gravi disagi ai cittadini, pendolari, malati negli ospedali e perfino i poveri minatori di carbone del Bengala bloccati nel sottosuolo e poi tirati fuori soltanto dopo ore.
Ma sono davvero convinta che un guasto del genere, possibilissimo anche nei Paesi avanzati (ricordiamoci cosa e' successo in Giappone con le centrali piu' ''sicure'' del mondo) avrebbe sicuramente creato un caos inimmaginabile con conseguenze tragiche.
Lo ricordo, i blackout fanno parte della vita quotidiana in India, in Pakistan (13 o 14 ore al giorno a volte) , Nepal e Bangladesh. Ce ne sono stati anche di piu' lunghi. Mi ricordo in periferia di Delhi di essere stata tre giorni senza corrente. Per inciso, la Borsa di Mumbai ieri ha perfino chiuso in rialzo.
Miracolosamente (o forse e' normale?) anche i computer e i call center di Gurgaon hanno retto. Dall'outsourcing dipendono le banche della City londinese. Si immagini che succede se vanno in tilt. L'era digitale dipende sempre dalla vecchia elettricita'.
Invece di dare addosso all'India, invece bisognerebbe cominciare a riflettere sulla nostra interdipendenza tecnologica e sulle cosiddette ''criticita'''. Un guasto in India, polo informatico mondiale, non e' solo un problema d'immagine per New Delhi, ma mette in gioco la sostenibilita' del nostro modo di vivere.
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