‘’Le acque che scendono dal cielo o quelle che scorrono sulla terra, quelle che sgorgano dai pozzi o che emergono da sole, queste pure e chiare acque che bramano l’oceano come loro ultima meta, ebbene che queste acque, che sono divinita’, mi possano aiutare sempre e ovunque’’.
Preghiera tratta dai testi sacri del Rig Veda
Gli ultimi 18 chilometri del Bhagirati (come e’ chiamato qui il Ganga dal nome di un antico sovrano), che si fanno a piedi, attraversano una delle piu’ belle valli dell’Himalaya. Il fiume sacro adorato da un miliardo d 200 milioni di persone sgorga da un ghiacciaio eterno che si chiama Gomukh, la bocca o faccia della mucca, a oltre 4 mila metri, ai piedi di un massiccio dalle nevi perenni conosciuto come Shivling (fallo di Shiva) e che costeggia il confine con il Tibet. La maestosita’ del paesaggio e la ricchezza della natura sono straordinarie. Penso sia una delle piu’ belle e intense camminate che abbia mai fatto in montagna. Alcune volte il panorama era cosi’ perfetto che ti lasciava semplicemente a bocca aperta.
Sono partita all’alba, passando dietro il tempio alla dea Ganga dove parte il sentiero per Chirbasa (9km), Bhojbasa (14 km) e infine Gomukh (circa 20km). Il trekkink si trova in un parco naturale a cui si accede con un permesso valido due giorni che costa 600 rupie per gli stranieri (100 per gli indiani). Ogni giorno aggiuntivo costa 250 rupie. Le guardie forestali chiedono poi una ''cauzione'' su ogni bottiglia o contenitore di plastica per scoraggiare che si abbandonino rifiuti. Io ho dichiarato un impermeabile usa e getta, una bottiglia di acqua, una barretta di cioccolara e un pacchetto di biscotti, ma la guardia avrebbe dovuto perquisire lo zaina per vedere se avevo altro materiale non biodegradabile. Comunque, ben fatto, veramente, ho anche fatto i complimenti per l'iniziativa e ho promesso anche di portare giu' eventuale spazzatura altrui.
La salita non e’ ripida, ma e’ costante e ardua per via della mulattiera piena di sassi appuntiti che si snoda nella vallata passando boschi e attraversando diversi rigagnoli che scendono dai ghiacciai laterali. E’ un tour de force soprattutto per l’altitudine che a meta’ cammino quando ci si avvicina ai 4 mila metri comincia a premere sui polmoni e sulle tempie. Dopo un po’, in effetti, con le gambe spezzate dalla fatica e il cuore che ogni tanto perde qualche colpo, il trekking puo’ assumere in effetti un connotato spirituale...vengono in mente parallelismi tra la ricerca delle fonti con la ricerca dell’Io profondo. La risalita del fiume si trasforma in un viaggio introspettivo verso le proprie origini....
Presa da fervore mistico, a un certo punto, quando ho visto in lontananza il grande ghiacciaio di Gomukh, un anfiteatro di sabbia e ghiaccio marrone, mi sono spuntate le lacrime. La Mata Ganga, la madre Gange, la linfa vitale di centinaia di milioni di persone, nasce proprio da qui!!! ‘’Questa e’ l’anima piu’ profonda dell’India’’ mi ha detto un baba di Hyderabad che ha fatto parte del cammino con me, con la sua tunica arancione e in ciabatte di plastica, una vecchia stampella per bastone e in mano l’immancabile barattolino di latta.
Il bello e’ che in realta’ dopo tanti giorni di fatica, il punto esatto dove sgorga l’acqua non si vede perche’ il sentiero termina un bel pezzo prima del ghiacciaio. Al diciottesimo chilometro da Gangotri, segnato da un pilone, un cartello avverte: ‘’No entry’’. Vicino c’e’ un tempietto provvisorio, sulla sponda del fiume, con un santone come guardiano che al calar del sole se ne torna a Bojbhasa (3.900 metri), il ‘’campo base’’ di Gomukh dove i pellegrini pernottano in tenda oppure in alcune guest house di cemento.
‘’Se vuoi puoi proseguire, ma a tuo rischio e pericolo’’ mi hanno detto dei militari che pattugliano la zona che e’ solo una sessantina di chilometri dal Tibet. Erano ormai le 17, ma il sole era ancora alto e ho deciso quindi di andare avanti.
La mia ricerca delle sorgenti non poteva finire cosi’. A fatica mi sono messa pazientemente a seguire il torrente lungo la sponda saltando da un masso all’altro. Dopo un chilometro, le pareti del ghiacciaio erano ancora lontane e la Mata Ganga era ancora larga una decina di metri. Salendo a carponi su una roccia piu’ alta ho visto che qualcuno aveva scritto il proprio nome e una data, 2002. Avanti, verso la sorgente mi sembrava di intravedere un accenno di sentiero perdersi della pietraia. Il fiume dopo un po’ curvava e quindi non lo vedevo piu’. A un certo punto ho sentito un rombo profondo come una scossa di terremoto e dopo pochi secondi davanti a me da una fiancata del ghiacciao e’ ruzzolato giu’ un grosso ammasso di pietre neve e ghiaccio. Impaurita ho deciso di tornare sui miei passi, non prima di farmi un autoscatto per immortalare quel momento preciso .
L’origine della Ganga per me rimarra’ un mistero.
Per la prima volta dopo tanti giorni, finalmente seguivo la corrente del fiume, invece di risalirlo e mi sembrava di scorrere con esso. Mentre mi lasciavo andare a questa nuova sensazione, ho pensato a quale follia e’ cercare l’inizio o la fine di qualcosa. E mi sono venute in mente le teorie sulla reincarnazione, il motto eracliteo Panta Rei, tutto scorre e anche il titolo del libro di Tiziano Terzani, ‘’La fine e’ il mio Inizio’’’. In ‘’Sacred Waters’’, Stephen Alter scrive : ‘’For the pilgrim who travels to the headwaters of the Ganga, the journey upstream mirrors his search for God and the ambiguities of the source suggest the ultimate enigmas of the soul’’.
A Bhojbasa sono arrivata con le gambe spezzate e i crampi della fame. Mi sono fermata nell’ashram di Baba Lal, che ho scoperto poi dallo stesso libro di Alter e’ stato accusato di aver deforestato mezza vallata, famosa per le betulle (birches). Era pieno di ospiti, io ero l’unica straniera. Molti, che pensavano di tornare a Gangotri ma era ormai buio per affrontare 14 chilometri, erano intirizziti dal freddo non avendo con se giacche pesanti. Una ragazzo, che stava male, mi ha chiesto un aspirina. La ‘’stanza’’singola che mi hanno assegnato al prezzo di 250 rupie (esorbitante per un ashram) era in un rifugio dai tetti di latta dove all’ingresso compariva la scritta ‘’dont dirty’’. Con una porta alta un metro, un lucernario e dei logori tappeti che coprivano il pavimento in pendenza. Non penso che negli ultimi anni sia mai stata pulita. Ho usato la pila di coperte come materasso e sopra ho disteso mio il sacco a pelo, per fortuna, di quelli che tengono caldo. La corrente elettrica e’arrivata – non so da dove – appena calata la sera.
Come si usa negli ashram, l’equivalente dei nostri monasteri, si mangia insieme a orari prefissati. La cena e’ dalle 19.30 ed e’ servita su un lungo tappetino disteso sul pavimento del cortile esterno. Come prevedibile, faceva molto freddo, ma non penso sia stato sotto lo zero. Puntuali, tutti gli ospiti, baba compresi, nascosti sotto spesse coperte, si sono sistemati a gambe incrociate in tre file . Mi sembrava di essere in uno degli ospizi di carita’. Mentre Baba Lal intonava un mantra a Rama, gli inservienti passavano veloce con dei secchi di metallo a riempire i piatti (fatti di foglie secche incollate) di riso, ''dal'' e ''sabsi'' (zuppa di lenticchie e vegetali misti) e ''roti'' (pane piatto cotto su una padella e poi passato sulla brace). Con una teiera riempivano i bicchieri di acqua.
Mi sono vergognata un sacco a chiedere un cucchiaio. Mangiare il riso con le mani mi e’ gia’ difficile sul un tavolo, per terra e’ impossibile senza imbrattarmi tutta. I miei compagni di mensa mi hanno guardata con un misto di compassione e divertimento.
Alla fine tutti ci siamo messi in coda per lavare bicchieri e le mani con l’acqua calda che uno dei lavoranti del baba versava da un pentolone.
Finita l’operazione, c’e’ stato un fuggi fuggi generale nelle proprie tane. Mi sono messa addosso tutti gli indumenti che avevo nello zaino. Non sono mai stata cosi’ contenta di aver un tetto sopra la mia testa e qualcosa in pancia.
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