ALLE SORGENTI GANGE/FINE - Dentro la centrale idrolettrica di Tehri e la pioggia divina
Da dove mi sono fermata a dormire, in una stanza del corpo forstale a Chourangikal, a circa 30 chilometri sopra Uttarkashi, ci sono ancora oltre 200 chilometri per arrivare a Badrinath, la terza tappa del pellegrinaggio del Char Dham. Bisogna praticamente scendere fino quasi a valle e poi risalire in un’altra direzione. Il Char Dham, che i pellegrini devoti fanno in 8-9 giorni inscatolati come sardine su potenti jeep e’ un vero e proprio tour de force delle abluzioni. A piedi ci si impiega tre mesi mi ha detto un baba che lo ha fatto. In basso, ormai la maggior parte dei sentieri sono stati trasformati in strade, ma in alto ci sono ancora le vecchie vie puntellate di ashram che passando attraverso boschi o in certi casi ghiacciai collegano le quattro fonti sacre.
Per il mio scooter che era sempre piu’ in affanno nelle interminabili salite, non era possibile andare oltre. Inoltre avevo ormai poco tempo a disposizione. Quindi dopo un’odissea di 100 km su una strada secondaria semi asfaltata sono tornata a New tehri. Ho costeggiato l’immenso bacino indroelettrico di Tehri sulla sponda opposta da cui sono venuta, sono scesa fino a trovare un ponte che l’attraversava e da li’ sono risalita fino allo sbarramento. In tutto il giorno avro’ incrociato una manciata di auto e incontrato pochissima gente. E’ una vallata fantasma ormai e i pochi che sono rimasti, mi sono sembrati davvero i piu’ disagiati.
Come degna conclusione del mio viaggio alle sorgenti del Gange, vado a visitare l’impianto che dalle acque del fiume produce circa mille megawatt di corrente e irriga le secche pianure del Punjab e Haryana. La diga di Tehri ha immobilizzato la dea Ganga come ha fatto Shiva con i suoi dreadlocks.
Dopo aver chiesto il permesso, una decina di giorni fa, alla Cisf (Central Industrial Security Force) che protegge aeroporti, centrali e siti sensibili, oggi sono stata accompagnata per una visita individuale nelle viscere della montagna dove le acque del Bhagirathi, captate dal bacino, scendono per tre km a velocita’ pazzesca facendo girare quattro megaturbine alte 40 metri. L’impianto e’ uno dei piu’ grandi del mondo ed e’ entrato in funzione nel 2006 dopo un progetto durato anni e anni di sbancamenti e realizzato insieme ai russi. la diga sorge in una strettissima gola alla confluenza di due fiumi, il Bhagirati e il Bhilangana. Lo sbarramento non e’ di cemento, ma e’ solo un enorme terrapieno. Quando me lo hanno detto mi sono stupita...mi hanno spiegato che e’ meglio per i terremoti vista che la zona himalayana e’ sismica.
All’interno della ‘’power house’’, dove lavorano a turno un centinaio di tecnici, ci sono diverse scritte con slogan sulla sicurezza sul lavoro e sulla virtu’ del coraggio. Al momento della mia visita, non c’era pero’ produzione perche’ mi ha spiegato un ingegnere ‘’non c’era richiesta da parte della grid’’. Una delle quattro turbine era inoltre in manutenzione. Una fase due, che aggiungera’ altre centinaia di megawat, e’ in via di ultimazione. Mi hanno mostrato delle gallerie dove saranno messe altre turbine. Sui tralicci dell’alta tensione, che partivano da fuori, un cartello avverte: ‘’Electricity is a gift of God, but it is a bad master’’, l’elettricita’ e’ un dono di Dio, ma e’ una cattiva padrona.
L’energia che si produce qui, grazie alla dea Ganga, serve anche a me a New Delhi per far funzionare il condizionatore, il frigorifero...i computer. Nell’India che vuole crescere al ritmo dell’8-9% all’anno, sempre piu’ ci vorranno sacrifici ambientali per permettere la sopravvivenza e una qualita’ di vita accettabile alla maggior parte dei suoi 1,2 miliardi di abitanti.
Con questi pensieri affronto gli ultimi 100 km verso Rishikesh, quasi non accendo il motore, tanto la strada continua a scendere.
Per la prima volta, in questi giorni, un temporale mi sorprende per strada. Per tutto il pomeriggio c’e’ stata una calura opprimente che conosco molto bene. E’ quella che precede il monsone e che ti fa sudare come una fontana anche se non c’e’ il sole e sei assolutamente fermo. Vedo le nuvole danzare con me a ogni tornante. A un certo punto la strada scompare in una foschia lattiginosa. Da lontano sento una musica, vedo degli uomini in pantaloncini e ciabatte ballare lungo il ciglio della strada sotto la pioggia avvolti dai vapori che salgono e scendono lungo i fianchi della montagna. Dalle portiere aperte dell’auto arriva il ritmo di una canzone panjabi. Sembrano in estasi. Sono appena fuggiti alla calura infernale del Punjab e si stanno godendo la divina frescura. Che loro abbiano trovato le vere sorgenti del Gange?
ALLE SORGENTI GANGE/12 - Il laghetto di Nachiketa e baba Krishna
Sperimentando le rotte poco battute del corso superiore del Gange, sono finita a Nachiketa Tal, il lago di Nachiketa, che e’ a circa a un’ora di cammino da una strada che i pellegrini usano per spostarsi da Gangotri a Badrinath, la terza tappa del pellegrinaggio del Char Dham. Il mini trekking e’ inserito in una riserva con accesso a pagamento (40 rupie). Il sentiero si snoda in un bosco di querce e rododendri ed e’ puntellato da cartelli che invitano a rispettare e ad amare la natura. Vedo con piacere, che qui in Uttaranchal c’e’ parecchia attenzione all’argomento ecologia. D’altronde, mi ricordo benissimo quando ero piccola e alcuni popolari mete alpine in Piemonte erano piene di cartacce...la coscienza ecologica richiede tempo e maturazione!
Il laghetto e’ alimentato da una sorgente naturale, ma l’acqua non e’ limpida come a Dodi Tal. Come ogni posto su queste montagne, anche questo e’ legato alla mitologia induista e in particolare alla storia del saggio Nachiketa, tratta dai libri delle Uspanishad. A raccontarmela e’ Baba Krishna, un ‘’sadhu’’ che vive in una baracca a fianco del laghetto coperta da lamiere e teli di plastica. Ancora una volta noto che estetica e misticismo non sono purtroppo in sintonia. Le sponde del lago sono state cementificate e il baba, piu' che un eremita, sembra un profugo senzatetto.
Baba Krishna, originario del Gujarat, dice di avere 92 anni e di vivere nel lago da sei anni. Per altri 18 ha girato in Himalaya fino a trovare questo posto che e’ legato alla dea Maya (dea della Morte) e al bambino Nichiketa figlio di un ''rishi'' (santo) Udalak, che viveva in questo luogo. In gesto propiziatorio, Udalak aveva deciso di donare i suoi averi alle divinita’ per avere piu’ saggezza, ma tutto quello che regala e’ una vacca malata che non dava latte. Volendo aiutarlo in uno slancio di affetto paterno, Nachiketa gli suggerisce di donare lui stesso agli dei (qui mi e’ venuta in mente la storia di Isacco e Giacobbe). Ma il padre si indigna e lo rimprovera. Nachiketa pero’ insiste e il padre, in un gesto di rabbia, gli dice : ‘’ebbeno si’, ma ti offriro’ a Maya!’’ Il bambino allora va a casa della dea della Morte, ma non la trova e allora aspetta tre giorni davanti alla sua porta senza cibo e acqua. Quando Maya ritorna si stupisce della perseveranza e coraggio di Nachiketa. E anche si vergogna della mancata ospitalita’. Quindi in cambio, concede a Nachiketa di esaudire tre desideri a sua scelta. Il ragazzo chiede per prima cosa che sua padre sia felice, poi che questo lago porti il suo nome e poi domanda a Maya di svelare il mistero della vita nell’aldila’, non proprio in questi termini, ma questa e’ la sostanza, piu’ o meno.
Baba Krishna, mi racconta questa storia seduto su un tappetino usurato vicino a un enorme bracere che lo scalda d’inverno, mentre prepara un chai. Sa un po’ di inglese, ma per i concetti piu’ difficili passa all’hindi. Prima di scegliere l’eremitaggio, ha insegnato in diversi ashram a Delhi e Pushkar che mi elenca con orgoglio. E’ convinto dell’universalita’ della religione e mi spiega anche delle sue teorie filosofiche sulla natura umana.
La quiete del lago, vicino al quale si stende un piccolo pianoro erboso dove si apre un cunicolo, che secondo lui va a Yamunotri (non ho verificato..) e la presenza di Dio (''Bhagwan'') lo appagano pienamente. Per essere informato su quello che succede nel mondo, ogni mattina ascolta le notizie in FM su una piccola radio, volenterosi e pellegrini gli portano ‘’tutto quello di cui ho bisogno’’ e dice di non essere mai stato malato. Poi parliamo delle dighe sul Gange e del cambiamento climatico. Mi parla dei ghiacciai che si restringono e della salinizzazione, ‘’tra vent’anni non ci sara’ piu’ acqua da bere nel mondo’’ e’ la sua previsione.
L'incontro mi lascia molto perplessa e dubbiosa sulla genuina scelta di vita degli eremiti. Non e’ forse piu’ comoda la fuga in un posto come questo piuttosto che combattere ogni giorno con i problemi quotidiani del lavoro e della famiglia? Mentre scendevo mi e’ venuto in mente ''Samsara'', il film di Pan Nalin girato in Ladakh (2001), con una forte carica spirituale e erotica, che parla dell’''illuminazione'' di un monaco irrequieto che sperimenta la vita materiale nel ''mondo'' e, non trovando neppure li' la felicita', ritorna nel suo monastero abbandonando tutto.
ALLE SORGENTI GANGE/11 - Baba Maharaji e il bar sport di Dodi Tal
A Dodi Tal, sopra il tempio dedicato a Ganesh, c’e’ una casupola dove da una ventina di anni vive un baba che si fa chiamare Maharaji e che ha un viso che esprime davvero una ricchezza interiore da maharaja’. Mi ha detto che ha 70 anni e che ancor prima di arrivare li’ ha deciso di abbandonare tutto e di dedicarsi alla ricerca spirituale. Non medita, non fa yoga, non prepara unguenti. Se ne sta in posizioni di loto su una coperta su un terrazzino davanti alla casa a chiacchierare con chi arriva e a farsi dei chilum con della ‘’ciaras’’ (hashish) locale che mi ha fatto vedere e che gli portano da un villaggio gia’ bella pronta. La casa del baba e’ praticamente il ‘’bar sport’’ del luogo.
Dopo una decina di minuti a Dodi Tal ci si conosce tutti. Negli ultimi 50 metri del sentiero che costeggiano il torrente emissario, ci sono alcune dhaba che praticano prezzi esorbitanti per mangiare e per una branda in un tugurio. Poi c’e’ la ‘’guest house’’ del governo dove il prezzo ufficiale e’ di 1.500 rupie e che e’ gestita da un ‘’guardiano’’ (‘’chowkidar’’). In alternativa, per chi non ha la tenda come me, c’e’ il retro del tempio, dove si dorme per terra o un posto nelle casupole dei brahmimi, due fratelli e il figlio di uno di loro.
A questa combriccola formata dal baba, dai brahmini e dal guardiano, si unisce occasionalmente anche un pastore locale e poi - naturalmente - i pellegrini o turisti. Oggi con me c’e’ un gruppo di ragazzi e ragazze di un vicino villaggio che si sono installati nel tempio con coperte e materassi.
Quando sono arrivata al laghetto, il pastore stava cercando di recuperare il gregge, circa 300 tra capre e pecore, e riportarlo sulle sponde del laghetto. Mentre fischiava e si sbracciava, il suo cane era al suo fianco con un aria annoiata.
Trovando la scena molto divertente, gli ho chiesto come mai il cane jon faceva il suo lavoro. Mi ha detto che era stato morso da altri e che era ‘’malato’’. n effetto la bestia aveva un grosso collare di ferro che, come mi e’ stao spiegato, serviva per impedire che lo azzannassero al collo. A un certo punto preso da un impeto di orgoglio, ha cercato di avvicinarsi a un caprone indisciplinato che per tutto rispota lo ha attaccato. La povera bestia e’ tornata immediatamente dietro il padrone con la coda tra le gambe.
Dopo un po’, rivedo il pastore da baba Maharaji, dove mi ero accomodata anche per iniziare la durissima contrattazione sulla guest house (sono scesa da 1.500 a 300 con ricevuta falsa di 60 rupie quindi il guardiano si e’ intascata la diffferenza). Con il cane al fianco, il pastore chiede al santone un ‘’giro’ di cilum e poi si mette a chiacchierare con i due brahmini. Il gregge si stava di nuovo allontanando dal lago, a un certo punto e’scomparso nella vallata. Gli ho chiesto se non si preoccupava, ma lui mi ha detto ‘’che non c’erano pericoli’’. Non ci sono leopardo o altri felini, l’unica causa di morte per le pecore sono delle erbe velenose. Poi mi ha detto che forse dovrebbe comprare un cane, quello dal pelo rosso (non come il suo che e’ nero) che e’ cosi’ bravo a prteggere le pecore ‘’che uno puo’ dormire tutto il giorno’’.
Al tramonto tutti i presenti, eccetto il baba, partecipano alla arthi (l’equivalente dei nostri vespri) con grande scampanellii e lunghissime litanie a Ganesh e alla sua famiglia di divinita’. Quando finisce la cerimonia, e’ calato il buio (ovviamente qui non c’e’ corrente), il baba mi invita a ‘’cena’’ che i ragazzi cucinano sul braciere del suo tugurio. Gli porto in regalo un berretto di lana che avevo trivato a Gomukh. Per la prima volta vedo come fare i ''roti'' sull’apposita padella prima e poi sulla brace. Comunichiamo poco, perche’ parlano il dialetto locale del Garhwal (Uttarakand) e anche perche’ penso che non abbiano mai visto stranieri. Le ragazze sono sorprese dal fatto he non porto l’anellino al naso e che non sia capace a stendere la pasta per il ‘’roti. Si divertono un sacco. Meno male che c’e’ il baba che capisce l'inglese e che interviene a mia difesa.
Quando esco, la costellazione del grande carro si e’ distesa esattamente sopra il laghetto in mezzo al cerchio delle montagne. Non ci sono altre stelle, ma solo la luce azzurrina della luna che sta per sorgere e che rischiare la mia stanza al posto delle candele.
ALLE SORGENTI GANGE/10 - Il lago di Dodi Tal, dove e' nato Ganesh
La vallata del Bhagirati-Ganga e’ piena di riferimenti mitologici. Uno di questi e’ Dodi Tal, un laghetto da fiaba incastonato tra verdi montagne a circa 3 mila metri, considerato il luogo natale di Ganesha, il popolare dio elefante che protegge le case degli indiani, soprattutto di quelli ricchi.
Ci si arriva con una camminata abbastanza facile ma lunga, oltre 20 chilometri, che parte da Sangam Ciatti, un minuscolo villaggio a un’ora da Uttarkashi, circondato da un paesaggio bucolico. Arrivata nel pomeriggio, ho parcheggiato lo scooter davanti a una dhaba e poi zaino in spalla sono salita circa due ore fino a un villaggio chiamato Agora dove ho trascorso la notte. Di buon mattino, dopo sei sette ore prima di salita e poi sul costone della montagna, compare il lago di forma quasi rotonda con un raggio di circa 50 metri, pieno di pesci (trote, sembrano) e circondato da conifere. Quando sono arrivata c’era anche un gregge che completava il quadro perfetto per un presepe.
Per fortuna, a parte alcuni orribili ponticelli di cemento, non ci sono altre costruzioni a parte una guesthouse governativa dove mi trovo dopo una durissima contrattazione e due bungalow, uno pero’ ridotto a uno scheletro metallico. La maggior parte dei turisti arriva con la tenda e fornello. Avendo io invece bisogno di un posto dove dormire, ovviamente mi hanno chiesto cifre pazzesche. L’alternativa era tornare indietro oppure stare in un ‘’ashram’’ di un baba, decisamente non invitante.
Mi hanno detto che ieri e l’altro ieri, in coincidenza con la festivita’ locale di Ganga Dusseira c’erano centinaia di persone a Dodi Tal. Oggi pero’ sono l’unica visitatrice ed e’ anche un po’ imbarazzante perche’ mi sento sotto osservazione. Il tempo, stamattina strepitoso, nel pomeriggio si e’ guastato come avviene di solito in montagna. Quando sono arrivata pioveva e lo specchio d’acqua perfettamente lucido era leggermente increspato. Qua e’ la’ le ‘’trote’’ saltavano fuori rompendo il silenzio quasi innaturale del posto. Mi hanno detto che la pesca e’ vietata qui, ma mi immaginavo che bella grigliata si potrebbe fare. Spesso durante i trekking solitari, quando passo ore e ore a sentire i battiti accellerati del mio cuore, mi sorprendo a pensare alle passeggiate che da bambina facevo nei boschi del Canavese quando si andava a funghi. E mi vengono in mente i panini al prosciutto e salame e le pinte di barbera che mio padre o mio nonno si portavano dietro...e poi si sciolgono ricordi dell’infanzia, gioie e sofferenze, come un una seduta psicologica.
La storia legata a Dodi Tal e’ una delle piu’ famose della mitologia induista. Un giorno Parvati, la moglie di Shiva, decise di fare il bagno nel lago e chiese al figlio di mettersi di guardia sul sentiero di accesso e di non far passare nessuno. Il ragazzo e’ cosi’ zelante che quando arriva il maestoso Shiva, lo blocca, non riconoscendolo. Shiva, il dio distruttore, lo ‘’fulmina’’ con il suo tridente (o il terzo occhio, non e’ chiaro) e gli fa saltare via la testa. Parvati, in lacrime, lo supplica di riportarlo in vita. Il potente marito la accontenta, ma gli annuncia che avra’ la testa del primo animale che passa da quelle parti. Chi arriva, tra i cedri e i rododendri dell’Himalaya? Un elefante! E cosi’ nasce Ganesh o Ganapati, come lo chiamano a Bombay.
Quando ho chiesto ai pastori del posto se nella zona c’erano anche elefanti, si sono messi a ridere, ma forse all’epoca Dodi Tal era in collina e anche non cosi’ freddo da farci il bagno....
Ci si arriva con una camminata abbastanza facile ma lunga, oltre 20 chilometri, che parte da Sangam Ciatti, un minuscolo villaggio a un’ora da Uttarkashi, circondato da un paesaggio bucolico. Arrivata nel pomeriggio, ho parcheggiato lo scooter davanti a una dhaba e poi zaino in spalla sono salita circa due ore fino a un villaggio chiamato Agora dove ho trascorso la notte. Di buon mattino, dopo sei sette ore prima di salita e poi sul costone della montagna, compare il lago di forma quasi rotonda con un raggio di circa 50 metri, pieno di pesci (trote, sembrano) e circondato da conifere. Quando sono arrivata c’era anche un gregge che completava il quadro perfetto per un presepe.
Per fortuna, a parte alcuni orribili ponticelli di cemento, non ci sono altre costruzioni a parte una guesthouse governativa dove mi trovo dopo una durissima contrattazione e due bungalow, uno pero’ ridotto a uno scheletro metallico. La maggior parte dei turisti arriva con la tenda e fornello. Avendo io invece bisogno di un posto dove dormire, ovviamente mi hanno chiesto cifre pazzesche. L’alternativa era tornare indietro oppure stare in un ‘’ashram’’ di un baba, decisamente non invitante.
Mi hanno detto che ieri e l’altro ieri, in coincidenza con la festivita’ locale di Ganga Dusseira c’erano centinaia di persone a Dodi Tal. Oggi pero’ sono l’unica visitatrice ed e’ anche un po’ imbarazzante perche’ mi sento sotto osservazione. Il tempo, stamattina strepitoso, nel pomeriggio si e’ guastato come avviene di solito in montagna. Quando sono arrivata pioveva e lo specchio d’acqua perfettamente lucido era leggermente increspato. Qua e’ la’ le ‘’trote’’ saltavano fuori rompendo il silenzio quasi innaturale del posto. Mi hanno detto che la pesca e’ vietata qui, ma mi immaginavo che bella grigliata si potrebbe fare. Spesso durante i trekking solitari, quando passo ore e ore a sentire i battiti accellerati del mio cuore, mi sorprendo a pensare alle passeggiate che da bambina facevo nei boschi del Canavese quando si andava a funghi. E mi vengono in mente i panini al prosciutto e salame e le pinte di barbera che mio padre o mio nonno si portavano dietro...e poi si sciolgono ricordi dell’infanzia, gioie e sofferenze, come un una seduta psicologica.
La storia legata a Dodi Tal e’ una delle piu’ famose della mitologia induista. Un giorno Parvati, la moglie di Shiva, decise di fare il bagno nel lago e chiese al figlio di mettersi di guardia sul sentiero di accesso e di non far passare nessuno. Il ragazzo e’ cosi’ zelante che quando arriva il maestoso Shiva, lo blocca, non riconoscendolo. Shiva, il dio distruttore, lo ‘’fulmina’’ con il suo tridente (o il terzo occhio, non e’ chiaro) e gli fa saltare via la testa. Parvati, in lacrime, lo supplica di riportarlo in vita. Il potente marito la accontenta, ma gli annuncia che avra’ la testa del primo animale che passa da quelle parti. Chi arriva, tra i cedri e i rododendri dell’Himalaya? Un elefante! E cosi’ nasce Ganesh o Ganapati, come lo chiamano a Bombay.
Quando ho chiesto ai pastori del posto se nella zona c’erano anche elefanti, si sono messi a ridere, ma forse all’epoca Dodi Tal era in collina e anche non cosi’ freddo da farci il bagno....
ALLE SORGENTI GANGE 9/ Gomukh, il ghiacciaio della mucca
‘’Le acque che scendono dal cielo o quelle che scorrono sulla terra, quelle che sgorgano dai pozzi o che emergono da sole, queste pure e chiare acque che bramano l’oceano come loro ultima meta, ebbene che queste acque, che sono divinita’, mi possano aiutare sempre e ovunque’’.
Preghiera tratta dai testi sacri del Rig Veda
Gli ultimi 18 chilometri del Bhagirati (come e’ chiamato qui il Ganga dal nome di un antico sovrano), che si fanno a piedi, attraversano una delle piu’ belle valli dell’Himalaya. Il fiume sacro adorato da un miliardo d 200 milioni di persone sgorga da un ghiacciaio eterno che si chiama Gomukh, la bocca o faccia della mucca, a oltre 4 mila metri, ai piedi di un massiccio dalle nevi perenni conosciuto come Shivling (fallo di Shiva) e che costeggia il confine con il Tibet. La maestosita’ del paesaggio e la ricchezza della natura sono straordinarie. Penso sia una delle piu’ belle e intense camminate che abbia mai fatto in montagna. Alcune volte il panorama era cosi’ perfetto che ti lasciava semplicemente a bocca aperta.
Sono partita all’alba, passando dietro il tempio alla dea Ganga dove parte il sentiero per Chirbasa (9km), Bhojbasa (14 km) e infine Gomukh (circa 20km). Il trekkink si trova in un parco naturale a cui si accede con un permesso valido due giorni che costa 600 rupie per gli stranieri (100 per gli indiani). Ogni giorno aggiuntivo costa 250 rupie. Le guardie forestali chiedono poi una ''cauzione'' su ogni bottiglia o contenitore di plastica per scoraggiare che si abbandonino rifiuti. Io ho dichiarato un impermeabile usa e getta, una bottiglia di acqua, una barretta di cioccolara e un pacchetto di biscotti, ma la guardia avrebbe dovuto perquisire lo zaina per vedere se avevo altro materiale non biodegradabile. Comunque, ben fatto, veramente, ho anche fatto i complimenti per l'iniziativa e ho promesso anche di portare giu' eventuale spazzatura altrui.
La salita non e’ ripida, ma e’ costante e ardua per via della mulattiera piena di sassi appuntiti che si snoda nella vallata passando boschi e attraversando diversi rigagnoli che scendono dai ghiacciai laterali. E’ un tour de force soprattutto per l’altitudine che a meta’ cammino quando ci si avvicina ai 4 mila metri comincia a premere sui polmoni e sulle tempie. Dopo un po’, in effetti, con le gambe spezzate dalla fatica e il cuore che ogni tanto perde qualche colpo, il trekking puo’ assumere in effetti un connotato spirituale...vengono in mente parallelismi tra la ricerca delle fonti con la ricerca dell’Io profondo. La risalita del fiume si trasforma in un viaggio introspettivo verso le proprie origini....
Presa da fervore mistico, a un certo punto, quando ho visto in lontananza il grande ghiacciaio di Gomukh, un anfiteatro di sabbia e ghiaccio marrone, mi sono spuntate le lacrime. La Mata Ganga, la madre Gange, la linfa vitale di centinaia di milioni di persone, nasce proprio da qui!!! ‘’Questa e’ l’anima piu’ profonda dell’India’’ mi ha detto un baba di Hyderabad che ha fatto parte del cammino con me, con la sua tunica arancione e in ciabatte di plastica, una vecchia stampella per bastone e in mano l’immancabile barattolino di latta.
Il bello e’ che in realta’ dopo tanti giorni di fatica, il punto esatto dove sgorga l’acqua non si vede perche’ il sentiero termina un bel pezzo prima del ghiacciaio. Al diciottesimo chilometro da Gangotri, segnato da un pilone, un cartello avverte: ‘’No entry’’. Vicino c’e’ un tempietto provvisorio, sulla sponda del fiume, con un santone come guardiano che al calar del sole se ne torna a Bojbhasa (3.900 metri), il ‘’campo base’’ di Gomukh dove i pellegrini pernottano in tenda oppure in alcune guest house di cemento.
‘’Se vuoi puoi proseguire, ma a tuo rischio e pericolo’’ mi hanno detto dei militari che pattugliano la zona che e’ solo una sessantina di chilometri dal Tibet. Erano ormai le 17, ma il sole era ancora alto e ho deciso quindi di andare avanti.
La mia ricerca delle sorgenti non poteva finire cosi’. A fatica mi sono messa pazientemente a seguire il torrente lungo la sponda saltando da un masso all’altro. Dopo un chilometro, le pareti del ghiacciaio erano ancora lontane e la Mata Ganga era ancora larga una decina di metri. Salendo a carponi su una roccia piu’ alta ho visto che qualcuno aveva scritto il proprio nome e una data, 2002. Avanti, verso la sorgente mi sembrava di intravedere un accenno di sentiero perdersi della pietraia. Il fiume dopo un po’ curvava e quindi non lo vedevo piu’. A un certo punto ho sentito un rombo profondo come una scossa di terremoto e dopo pochi secondi davanti a me da una fiancata del ghiacciao e’ ruzzolato giu’ un grosso ammasso di pietre neve e ghiaccio. Impaurita ho deciso di tornare sui miei passi, non prima di farmi un autoscatto per immortalare quel momento preciso .
L’origine della Ganga per me rimarra’ un mistero.
Per la prima volta dopo tanti giorni, finalmente seguivo la corrente del fiume, invece di risalirlo e mi sembrava di scorrere con esso. Mentre mi lasciavo andare a questa nuova sensazione, ho pensato a quale follia e’ cercare l’inizio o la fine di qualcosa. E mi sono venute in mente le teorie sulla reincarnazione, il motto eracliteo Panta Rei, tutto scorre e anche il titolo del libro di Tiziano Terzani, ‘’La fine e’ il mio Inizio’’’. In ‘’Sacred Waters’’, Stephen Alter scrive : ‘’For the pilgrim who travels to the headwaters of the Ganga, the journey upstream mirrors his search for God and the ambiguities of the source suggest the ultimate enigmas of the soul’’.
A Bhojbasa sono arrivata con le gambe spezzate e i crampi della fame. Mi sono fermata nell’ashram di Baba Lal, che ho scoperto poi dallo stesso libro di Alter e’ stato accusato di aver deforestato mezza vallata, famosa per le betulle (birches). Era pieno di ospiti, io ero l’unica straniera. Molti, che pensavano di tornare a Gangotri ma era ormai buio per affrontare 14 chilometri, erano intirizziti dal freddo non avendo con se giacche pesanti. Una ragazzo, che stava male, mi ha chiesto un aspirina. La ‘’stanza’’singola che mi hanno assegnato al prezzo di 250 rupie (esorbitante per un ashram) era in un rifugio dai tetti di latta dove all’ingresso compariva la scritta ‘’dont dirty’’. Con una porta alta un metro, un lucernario e dei logori tappeti che coprivano il pavimento in pendenza. Non penso che negli ultimi anni sia mai stata pulita. Ho usato la pila di coperte come materasso e sopra ho disteso mio il sacco a pelo, per fortuna, di quelli che tengono caldo. La corrente elettrica e’arrivata – non so da dove – appena calata la sera.
Come si usa negli ashram, l’equivalente dei nostri monasteri, si mangia insieme a orari prefissati. La cena e’ dalle 19.30 ed e’ servita su un lungo tappetino disteso sul pavimento del cortile esterno. Come prevedibile, faceva molto freddo, ma non penso sia stato sotto lo zero. Puntuali, tutti gli ospiti, baba compresi, nascosti sotto spesse coperte, si sono sistemati a gambe incrociate in tre file . Mi sembrava di essere in uno degli ospizi di carita’. Mentre Baba Lal intonava un mantra a Rama, gli inservienti passavano veloce con dei secchi di metallo a riempire i piatti (fatti di foglie secche incollate) di riso, ''dal'' e ''sabsi'' (zuppa di lenticchie e vegetali misti) e ''roti'' (pane piatto cotto su una padella e poi passato sulla brace). Con una teiera riempivano i bicchieri di acqua.
Mi sono vergognata un sacco a chiedere un cucchiaio. Mangiare il riso con le mani mi e’ gia’ difficile sul un tavolo, per terra e’ impossibile senza imbrattarmi tutta. I miei compagni di mensa mi hanno guardata con un misto di compassione e divertimento.
Alla fine tutti ci siamo messi in coda per lavare bicchieri e le mani con l’acqua calda che uno dei lavoranti del baba versava da un pentolone.
Finita l’operazione, c’e’ stato un fuggi fuggi generale nelle proprie tane. Mi sono messa addosso tutti gli indumenti che avevo nello zaino. Non sono mai stata cosi’ contenta di aver un tetto sopra la mia testa e qualcosa in pancia.
Preghiera tratta dai testi sacri del Rig Veda
Gli ultimi 18 chilometri del Bhagirati (come e’ chiamato qui il Ganga dal nome di un antico sovrano), che si fanno a piedi, attraversano una delle piu’ belle valli dell’Himalaya. Il fiume sacro adorato da un miliardo d 200 milioni di persone sgorga da un ghiacciaio eterno che si chiama Gomukh, la bocca o faccia della mucca, a oltre 4 mila metri, ai piedi di un massiccio dalle nevi perenni conosciuto come Shivling (fallo di Shiva) e che costeggia il confine con il Tibet. La maestosita’ del paesaggio e la ricchezza della natura sono straordinarie. Penso sia una delle piu’ belle e intense camminate che abbia mai fatto in montagna. Alcune volte il panorama era cosi’ perfetto che ti lasciava semplicemente a bocca aperta.
Sono partita all’alba, passando dietro il tempio alla dea Ganga dove parte il sentiero per Chirbasa (9km), Bhojbasa (14 km) e infine Gomukh (circa 20km). Il trekkink si trova in un parco naturale a cui si accede con un permesso valido due giorni che costa 600 rupie per gli stranieri (100 per gli indiani). Ogni giorno aggiuntivo costa 250 rupie. Le guardie forestali chiedono poi una ''cauzione'' su ogni bottiglia o contenitore di plastica per scoraggiare che si abbandonino rifiuti. Io ho dichiarato un impermeabile usa e getta, una bottiglia di acqua, una barretta di cioccolara e un pacchetto di biscotti, ma la guardia avrebbe dovuto perquisire lo zaina per vedere se avevo altro materiale non biodegradabile. Comunque, ben fatto, veramente, ho anche fatto i complimenti per l'iniziativa e ho promesso anche di portare giu' eventuale spazzatura altrui.
La salita non e’ ripida, ma e’ costante e ardua per via della mulattiera piena di sassi appuntiti che si snoda nella vallata passando boschi e attraversando diversi rigagnoli che scendono dai ghiacciai laterali. E’ un tour de force soprattutto per l’altitudine che a meta’ cammino quando ci si avvicina ai 4 mila metri comincia a premere sui polmoni e sulle tempie. Dopo un po’, in effetti, con le gambe spezzate dalla fatica e il cuore che ogni tanto perde qualche colpo, il trekking puo’ assumere in effetti un connotato spirituale...vengono in mente parallelismi tra la ricerca delle fonti con la ricerca dell’Io profondo. La risalita del fiume si trasforma in un viaggio introspettivo verso le proprie origini....
Presa da fervore mistico, a un certo punto, quando ho visto in lontananza il grande ghiacciaio di Gomukh, un anfiteatro di sabbia e ghiaccio marrone, mi sono spuntate le lacrime. La Mata Ganga, la madre Gange, la linfa vitale di centinaia di milioni di persone, nasce proprio da qui!!! ‘’Questa e’ l’anima piu’ profonda dell’India’’ mi ha detto un baba di Hyderabad che ha fatto parte del cammino con me, con la sua tunica arancione e in ciabatte di plastica, una vecchia stampella per bastone e in mano l’immancabile barattolino di latta.
Il bello e’ che in realta’ dopo tanti giorni di fatica, il punto esatto dove sgorga l’acqua non si vede perche’ il sentiero termina un bel pezzo prima del ghiacciaio. Al diciottesimo chilometro da Gangotri, segnato da un pilone, un cartello avverte: ‘’No entry’’. Vicino c’e’ un tempietto provvisorio, sulla sponda del fiume, con un santone come guardiano che al calar del sole se ne torna a Bojbhasa (3.900 metri), il ‘’campo base’’ di Gomukh dove i pellegrini pernottano in tenda oppure in alcune guest house di cemento.
‘’Se vuoi puoi proseguire, ma a tuo rischio e pericolo’’ mi hanno detto dei militari che pattugliano la zona che e’ solo una sessantina di chilometri dal Tibet. Erano ormai le 17, ma il sole era ancora alto e ho deciso quindi di andare avanti.
La mia ricerca delle sorgenti non poteva finire cosi’. A fatica mi sono messa pazientemente a seguire il torrente lungo la sponda saltando da un masso all’altro. Dopo un chilometro, le pareti del ghiacciaio erano ancora lontane e la Mata Ganga era ancora larga una decina di metri. Salendo a carponi su una roccia piu’ alta ho visto che qualcuno aveva scritto il proprio nome e una data, 2002. Avanti, verso la sorgente mi sembrava di intravedere un accenno di sentiero perdersi della pietraia. Il fiume dopo un po’ curvava e quindi non lo vedevo piu’. A un certo punto ho sentito un rombo profondo come una scossa di terremoto e dopo pochi secondi davanti a me da una fiancata del ghiacciao e’ ruzzolato giu’ un grosso ammasso di pietre neve e ghiaccio. Impaurita ho deciso di tornare sui miei passi, non prima di farmi un autoscatto per immortalare quel momento preciso .
L’origine della Ganga per me rimarra’ un mistero.
Per la prima volta dopo tanti giorni, finalmente seguivo la corrente del fiume, invece di risalirlo e mi sembrava di scorrere con esso. Mentre mi lasciavo andare a questa nuova sensazione, ho pensato a quale follia e’ cercare l’inizio o la fine di qualcosa. E mi sono venute in mente le teorie sulla reincarnazione, il motto eracliteo Panta Rei, tutto scorre e anche il titolo del libro di Tiziano Terzani, ‘’La fine e’ il mio Inizio’’’. In ‘’Sacred Waters’’, Stephen Alter scrive : ‘’For the pilgrim who travels to the headwaters of the Ganga, the journey upstream mirrors his search for God and the ambiguities of the source suggest the ultimate enigmas of the soul’’.
A Bhojbasa sono arrivata con le gambe spezzate e i crampi della fame. Mi sono fermata nell’ashram di Baba Lal, che ho scoperto poi dallo stesso libro di Alter e’ stato accusato di aver deforestato mezza vallata, famosa per le betulle (birches). Era pieno di ospiti, io ero l’unica straniera. Molti, che pensavano di tornare a Gangotri ma era ormai buio per affrontare 14 chilometri, erano intirizziti dal freddo non avendo con se giacche pesanti. Una ragazzo, che stava male, mi ha chiesto un aspirina. La ‘’stanza’’singola che mi hanno assegnato al prezzo di 250 rupie (esorbitante per un ashram) era in un rifugio dai tetti di latta dove all’ingresso compariva la scritta ‘’dont dirty’’. Con una porta alta un metro, un lucernario e dei logori tappeti che coprivano il pavimento in pendenza. Non penso che negli ultimi anni sia mai stata pulita. Ho usato la pila di coperte come materasso e sopra ho disteso mio il sacco a pelo, per fortuna, di quelli che tengono caldo. La corrente elettrica e’arrivata – non so da dove – appena calata la sera.
Come si usa negli ashram, l’equivalente dei nostri monasteri, si mangia insieme a orari prefissati. La cena e’ dalle 19.30 ed e’ servita su un lungo tappetino disteso sul pavimento del cortile esterno. Come prevedibile, faceva molto freddo, ma non penso sia stato sotto lo zero. Puntuali, tutti gli ospiti, baba compresi, nascosti sotto spesse coperte, si sono sistemati a gambe incrociate in tre file . Mi sembrava di essere in uno degli ospizi di carita’. Mentre Baba Lal intonava un mantra a Rama, gli inservienti passavano veloce con dei secchi di metallo a riempire i piatti (fatti di foglie secche incollate) di riso, ''dal'' e ''sabsi'' (zuppa di lenticchie e vegetali misti) e ''roti'' (pane piatto cotto su una padella e poi passato sulla brace). Con una teiera riempivano i bicchieri di acqua.
Mi sono vergognata un sacco a chiedere un cucchiaio. Mangiare il riso con le mani mi e’ gia’ difficile sul un tavolo, per terra e’ impossibile senza imbrattarmi tutta. I miei compagni di mensa mi hanno guardata con un misto di compassione e divertimento.
Alla fine tutti ci siamo messi in coda per lavare bicchieri e le mani con l’acqua calda che uno dei lavoranti del baba versava da un pentolone.
Finita l’operazione, c’e’ stato un fuggi fuggi generale nelle proprie tane. Mi sono messa addosso tutti gli indumenti che avevo nello zaino. Non sono mai stata cosi’ contenta di aver un tetto sopra la mia testa e qualcosa in pancia.
ALLE SORGENTI GANGE/8 - Il figlio ribelle del brahmino di Gangotri
Per arrivare al tempio di Gangotri si percorre una strada fiancheggiata da guesthouse, dhaba e negozi di souvenir e barattoli di ogni tipo per contenere l’acqua. Come al solito, i pellegrini fanno prima le abluzioni rituali nel ‘’ghat’’ e poi vanno a pregare la dea Ganga. L’acqua del fiume e’ gelida qui, ma l’immersione e’ obbligatoria di solito dopo una ‘’puja’’ familiare assistita da uno dei tanti bramini presenti con i loro vassoi contenenti riso, incenso, le spezie e un’erba profumatissima che chiamano il Ganga tulsi (tulsi e’ il basilico, sacro per gli induisti).
Il tempio e’ di marmo bianco, costruito nel XVIII secolo da un generale nepalese, Amar Singh Thapala e contiene la statua della divinita’ che a ottobre, a Diwali, viene portata in un villaggio piu’ in basso dove risiedono i brahmini, i ‘’pandit’’. Ho scoperto che i quattro templi del Char Dham sono custoditi da quattro diverse caste di religiosi. A Gangotri ci sono i Semwal, che provengono da un villaggio chiamato Mukhba.
Nel pomeriggio, mentre ero seduta davanti al tempio aspettando che riaprisse dopo la ‘’pausa pranzo’’ incontro per caso un ragazzo che scopro essere uno dei discendenti della dinastia brahminica. Ci presentiamo e mi dice di essere a Gangotri per una cerimonia celebrata dal padre e dedicata appunto alla famiglia. Ma poi, prendendo le distanze dalla parentela mi dice che lui ha deciso di non seguire il mestiere del padre e che sta studiando informatica a Dehradun. ‘’Quindi si interrompe la stirpe di brahmini?’’ chiedo io allarmata. ‘’No, c’e’ mio fratello maggiore che continua’’ mi rassicura indicandomi un giovane vestito da pujaro. Poi quasi a discolparsi aggiunge: ‘’certo e’ un mestiere unico al mondo quello di fare il brahmino a Gangotri, ma io preferisco studiare inglese e materie scientifiche’’. La cerimonia consiste nelal benedizione di una sorta di tabernacolo e di una fotografia degli antenati e si conclude su ul palco ormaito di fiori davanti al tempio con una serie di canti sacri dove il padre, seduo su un trono e con al collo diverse ghirlande ‘’presenzia’’ e benedice i presenti. Il figlio ha partecioato la rituale, ma sei vedeva che era un pesce fuori d’acqua e che a malavoglia faceva le abluzioni e parteciava ai canti. Sembrava molto distratto e quasi si vergognava quando incrociava lo sguardo del padre, che chissa’ quale delusione deve avere provato quando ha saputo che il suo ragazzo preferiva la matematica al salmodiare versi in sanscrito in onore della mata Ganga.
Il tempio e’ di marmo bianco, costruito nel XVIII secolo da un generale nepalese, Amar Singh Thapala e contiene la statua della divinita’ che a ottobre, a Diwali, viene portata in un villaggio piu’ in basso dove risiedono i brahmini, i ‘’pandit’’. Ho scoperto che i quattro templi del Char Dham sono custoditi da quattro diverse caste di religiosi. A Gangotri ci sono i Semwal, che provengono da un villaggio chiamato Mukhba.
Nel pomeriggio, mentre ero seduta davanti al tempio aspettando che riaprisse dopo la ‘’pausa pranzo’’ incontro per caso un ragazzo che scopro essere uno dei discendenti della dinastia brahminica. Ci presentiamo e mi dice di essere a Gangotri per una cerimonia celebrata dal padre e dedicata appunto alla famiglia. Ma poi, prendendo le distanze dalla parentela mi dice che lui ha deciso di non seguire il mestiere del padre e che sta studiando informatica a Dehradun. ‘’Quindi si interrompe la stirpe di brahmini?’’ chiedo io allarmata. ‘’No, c’e’ mio fratello maggiore che continua’’ mi rassicura indicandomi un giovane vestito da pujaro. Poi quasi a discolparsi aggiunge: ‘’certo e’ un mestiere unico al mondo quello di fare il brahmino a Gangotri, ma io preferisco studiare inglese e materie scientifiche’’. La cerimonia consiste nelal benedizione di una sorta di tabernacolo e di una fotografia degli antenati e si conclude su ul palco ormaito di fiori davanti al tempio con una serie di canti sacri dove il padre, seduo su un trono e con al collo diverse ghirlande ‘’presenzia’’ e benedice i presenti. Il figlio ha partecioato la rituale, ma sei vedeva che era un pesce fuori d’acqua e che a malavoglia faceva le abluzioni e parteciava ai canti. Sembrava molto distratto e quasi si vergognava quando incrociava lo sguardo del padre, che chissa’ quale delusione deve avere provato quando ha saputo che il suo ragazzo preferiva la matematica al salmodiare versi in sanscrito in onore della mata Ganga.
ALLE SORGENTI GANGE/7 - Gangotri bloccata da gigantesco ingorgo stradale
Dopo Uttarkashi, il Gange si snoda per 100 chilometri in una stretta e tortuosa vallata piena di ‘’deodar’’ (cedri himalayani), rododendri, betulle, una grande varieta’ di fiori e campi di patate, che percorro con una corriera strapiena di pellegrini. E’ la valle del Bhagirathi, appunto come e’ chiamato qui il fiume piu’ sacro dell’India sgorgato dai capelli di Shiva che ha portato la dea Ganga sulla terra per espiare le colpe di 60 mila antenati del re Baghirat, secondo una intricata storia della mitologia induista. Shiva, il dio dell’Himalaya, e’ infatti spesso rappresentato con la dea Ganga sul capo.
A parte le nuove centrali idroelettriche in costruzione, osteggiate da ambientalisti e guru indiani (proprio in questi giorni un santone e’ morto dopo uno sciopero della fame di quattro mesi), il paesaggio e’ ancora sorprendentemente incontaminato. In alcune parti mi verrebbe da dire un paesaggio quasi giurassico, per la maestosita' e le foreste impenetrabili.
Piu’ ci si avvicina a Gangotri, la mia meta dove sorge il tempio dedicato alla dea Ganga, piu’ la gola diventa profonda, quasi orrida come se dovesse sgorgare dagli inferi. Alcune volte mi sembra quasi un fiume infernale, la Stige del traghettatore Caronte e mi viene in mente una conferenza tanti anni fa a Delhi di uno studioso che sosteneva che Dante Alighieri si era ispirato alle descrizioni del Gange nella stesura della Divina Commedia.
A una decina di chilometri da Gangotri, non si vede neppure piu’ il fiume talmente e’ in fondo a un vertiginoso precipizio con delle rocce enormi color crema e altre variopinte frutto di chissa’ quali miscele geologiche. Mi chiedo se qualcuno ci ha mai messo piede laggiu’ in fondo. Certo sarebbe un paradiso per gli appassionati di canionyng. La sensazione qui e’ di inquietudine, non certo di sacralita’.
La spiegazione di questa caratteristica del Bhagirati la trovo nel libro ‘’Sacred Water’’ di Stephen Alter, che percorre a piedi la vecchia strada dei pellegrini del Char Dham. Il Gange infatti sgorga a nord di una montagna che si chiama Shiv Ling (fallo di Linga) e quindi deve lottare disperatamente con le rocce per scendere a valle, scavando il proprio passaggio attraverso l’Himalaya che probabilmente si e’ formata dopo il fiume.
Dopo 6 ore di balzi da rodeo, la corriera arriva miracolosamente fino in fondo alla vallata, ma l’accesso a Gangotri e’ bloccato da un gigantesco ingorgo stradale. I mezzi in uscita e in entrata sono bloccati sulla stretta stradina. Io e mie compagni di viaggio quindi siamo quindi costretti a scendere dal bus e a percorrere l’ultimo chilometro a piedi tra i gas di scarico, ambulanti, mendicanti, vacche, muli e sherpa.
Certo, trovare traffico ai 3.300 metri alle sorgenti del Gange e’ una cosa che farebbe venire voglia di chiudersi in casa e sparare a vista sui propri simili. Ma e’ ‘’alta stagione’’ mi dicono ed e’ ‘’normale’’ che Gangotri sia intasata. Un poliziotto poi mi spieghera’ che ogni giorno circa 15 mila pellegrini vengono a pregare la dea Ganga e a bagnarsi nelle sorgenti che non sono qui, ma molto piu’ in su, a una ventina di chilometri di cammino, nel ghiacciaio di Gomukh. Per la maggior parte di loro il pellegrinaggio culmina in questo villaggio, che per sei mesi all’anno e’ abbandonato sotto una coltre di neve, mentre per gli altri sei e’ una sorta di Mecca dell’induismo, uno dei posti piu’ sacri dell’intera India .
A parte le nuove centrali idroelettriche in costruzione, osteggiate da ambientalisti e guru indiani (proprio in questi giorni un santone e’ morto dopo uno sciopero della fame di quattro mesi), il paesaggio e’ ancora sorprendentemente incontaminato. In alcune parti mi verrebbe da dire un paesaggio quasi giurassico, per la maestosita' e le foreste impenetrabili.
Piu’ ci si avvicina a Gangotri, la mia meta dove sorge il tempio dedicato alla dea Ganga, piu’ la gola diventa profonda, quasi orrida come se dovesse sgorgare dagli inferi. Alcune volte mi sembra quasi un fiume infernale, la Stige del traghettatore Caronte e mi viene in mente una conferenza tanti anni fa a Delhi di uno studioso che sosteneva che Dante Alighieri si era ispirato alle descrizioni del Gange nella stesura della Divina Commedia.
A una decina di chilometri da Gangotri, non si vede neppure piu’ il fiume talmente e’ in fondo a un vertiginoso precipizio con delle rocce enormi color crema e altre variopinte frutto di chissa’ quali miscele geologiche. Mi chiedo se qualcuno ci ha mai messo piede laggiu’ in fondo. Certo sarebbe un paradiso per gli appassionati di canionyng. La sensazione qui e’ di inquietudine, non certo di sacralita’.
La spiegazione di questa caratteristica del Bhagirati la trovo nel libro ‘’Sacred Water’’ di Stephen Alter, che percorre a piedi la vecchia strada dei pellegrini del Char Dham. Il Gange infatti sgorga a nord di una montagna che si chiama Shiv Ling (fallo di Linga) e quindi deve lottare disperatamente con le rocce per scendere a valle, scavando il proprio passaggio attraverso l’Himalaya che probabilmente si e’ formata dopo il fiume.
Dopo 6 ore di balzi da rodeo, la corriera arriva miracolosamente fino in fondo alla vallata, ma l’accesso a Gangotri e’ bloccato da un gigantesco ingorgo stradale. I mezzi in uscita e in entrata sono bloccati sulla stretta stradina. Io e mie compagni di viaggio quindi siamo quindi costretti a scendere dal bus e a percorrere l’ultimo chilometro a piedi tra i gas di scarico, ambulanti, mendicanti, vacche, muli e sherpa.
Certo, trovare traffico ai 3.300 metri alle sorgenti del Gange e’ una cosa che farebbe venire voglia di chiudersi in casa e sparare a vista sui propri simili. Ma e’ ‘’alta stagione’’ mi dicono ed e’ ‘’normale’’ che Gangotri sia intasata. Un poliziotto poi mi spieghera’ che ogni giorno circa 15 mila pellegrini vengono a pregare la dea Ganga e a bagnarsi nelle sorgenti che non sono qui, ma molto piu’ in su, a una ventina di chilometri di cammino, nel ghiacciaio di Gomukh. Per la maggior parte di loro il pellegrinaggio culmina in questo villaggio, che per sei mesi all’anno e’ abbandonato sotto una coltre di neve, mentre per gli altri sei e’ una sorta di Mecca dell’induismo, uno dei posti piu’ sacri dell’intera India .
ALLE SORGENTI GANGE/6 - Uttarkashi, ritrovo il Gange
Da oggi sono entrata, o meglio ritornata nella valle del Ganga, o meglio del Baghirati, come e’ chiamato nel suo corso superiore, A differenza della Yamuna le acque sono bianche e la portata e’ decisamente maggiore. Da dove mi sono fermata a Uttarkashi, una citta’ vera propria con tanto di bazar e internet cafe’, sento il rigoglio della acque. Il fiume qui e' largo un centinaio di metri.
C’e un ponte di corde sospeso, tipo quelli di Rishikesh, i ‘’jhoola’’, che ho attraversato quando ormai era buio per andare a mangiare. Le rapide esalano una brezza pungente che mi ha fatto pensare ai condizionatori che adesso andranno a tutta birra a Delhi, stretta nella morsa dell’afa pre monsoniana. All’inizio del ponte c’e’ un mercatino con frutta e verdura bellissima. L’Uttarakand (o Uttaranchal come si chiamava prima) e’ famoso in particolare per le patate (‘’alu’’) e i cavolfiori (‘’gobi’’)
Il viaggio per arrivare a Uttarkashi e’ stato a dir poco infernale. Per diversi chilometri la strada non e’ asfaltata e con la pioggia e’ diventata un percorso da motocross. A un certo punto poi un tizio mi ha supplicato di dargli un passaggio fino a Barkot dove per fortuna un tizio mi ha venduto un un litro di benzina che mi ha permesso di attraversare la vallata e di raggiungere 80 chilometri dopo il corso del Bhagirati (Gange).
Da qui alle sorgenti ci sono circa 100 chilometri di strada sconnessa...troppo per il povero scooter che lascero’ parcheggiato davanti alla guest house dove pernotto.
C’e un ponte di corde sospeso, tipo quelli di Rishikesh, i ‘’jhoola’’, che ho attraversato quando ormai era buio per andare a mangiare. Le rapide esalano una brezza pungente che mi ha fatto pensare ai condizionatori che adesso andranno a tutta birra a Delhi, stretta nella morsa dell’afa pre monsoniana. All’inizio del ponte c’e’ un mercatino con frutta e verdura bellissima. L’Uttarakand (o Uttaranchal come si chiamava prima) e’ famoso in particolare per le patate (‘’alu’’) e i cavolfiori (‘’gobi’’)
Il viaggio per arrivare a Uttarkashi e’ stato a dir poco infernale. Per diversi chilometri la strada non e’ asfaltata e con la pioggia e’ diventata un percorso da motocross. A un certo punto poi un tizio mi ha supplicato di dargli un passaggio fino a Barkot dove per fortuna un tizio mi ha venduto un un litro di benzina che mi ha permesso di attraversare la vallata e di raggiungere 80 chilometri dopo il corso del Bhagirati (Gange).
Da qui alle sorgenti ci sono circa 100 chilometri di strada sconnessa...troppo per il povero scooter che lascero’ parcheggiato davanti alla guest house dove pernotto.
ALLE SORGENTI GANGE/5 - Dove nasce la sacra Yamuna, tra terme e sherpa nepalesi
La sorgente della Yamuna, il fiume piu’ sacro in India dopo il Gange, si trova in fondo a una stretta gola a oltre 3.200 metri altitudine. L’acqua proviene da un ghiacciaio visibile sulla montagna di Bander Poonch (6.316 metri), dove il dio scimmia Hanuman ha ''spento'' la sua coda in fiamme dopo una battaglia contro il demone Ravana dello Sri Lanka.
Circa un secolo fa, un maharaja di Jaipur ha costruito qui un tempio in onore della dea Yamuna, personaggio mitologico che e’ sorella di Yama, divinita’ della Morte e di Surya, il dio Sole. Con gli anni e dopo diversi terremoti, intorno al tempio e’ sorto un ashram e diverse strutture di cemento decisamente orribili, ma - si sa – e’ inutile cercare nell’induismo canoni estetici che appartengono alla tradizione filosofica greca e occidentale.
Per la natura rigogliosissima, le foreste profumate di cedri himlayani (‘’deodar’’) e di rododendri puntellate di cascate e del bianco scintillante dei ghiacciai, il posto ha invece una grande energia.
Mi piace molto l’idea di venerare i fiumi e associarli all’idea di ‘’madre’’, origine della vita. L’acqua sorgente di vita, e’ un concetto universale che si trova anche nel cristianesimo. Non e’ con l’acqua del Giordano che Giovanni Battista ha battezzato Gesu’? La medesima acqua del fonte battesimale e che si asperge in chiesa durante la messa...L’acqua...tra un po’ di giorni gli italiani sono chiamati a esprimersi sul questa preziosa risorsa in un referendum. Il concetto e la simbologia dell’acqua e’ forse quello che piu’ mi affascina in questo pellegrinaggio del Char Dham, le quattro sorgenti del Gange.
Il tempio di Yamunotri e’ incastonato in fondo alla vallata a cui si arriva dopo 6 chilometri di cammino abbastanza facile e agevole non fosse per la folla di devoti (‘’yatri’’), muli, portatori e portantine, trattorie, negozi e anche la polizia con i fischietti. Non certo una combinazione ideale per la sacralita’ del luogo.
La povera madre Yamuna – ‘’Jai Mata Devi’’ (Viva la Madre divina ) e’ quello che ripetono a ogni svolta della mulattiera di cemento – sembra essere bisfrattata anche qui oltre che a New Delhi, dove funziona da rete fognaria per la metropoli.
Lungo il sacro torrente, in prossimita’ delle dhaba e degli ambulanti di chai, sorgono intere discariche, soprattutto bottiglie e bicchieri di plastica, oltre agli impermeabili usa e getta. Mi hanno detto che i rifiuti biodegradabili sono interrati e la plastica bruciata, certo pero’ non e’ un bello spettacolo.
Il sentiero parte da Janki Chatti, un ex alpeggio con una decina di baite baite che vedo, oggi trasformato in parcheggio e immensa stalla per le centinaia centinaia di muli con i campanelli e le bardature colorate che vanno su e’ giu’ per trasportare anziani, bambini, cardiopatici e anche moribondi. La stagione e’ corta qui, solo sei mesi, poi l’intera vallata si chiude e anche i bramini del tempio se ne vanno.
Dal villaggio di Karadhi, dove mi sono fermata per la notte, c’e’ un’ora e mezza di macchina. In passato la strada si fermava prima a Hanuman Chatti e quindi c’erano 6 km in piu’ da fare a piedi.
Non volendo usare lo scooter, ho scroccato un passaggio a un gruppo di uomini provenienti dal Maharashtra occidentale che mi hanno poi ‘’adottata’’ nella camminata.
Sono partita alle 4.30, era ancora notte e due ore dopo ero a far colazione all’inizio della mulattiera con il gruppo. Verso le 11, camminando senza fretta, eravamo in cima. Una pioggia a intermittenza, per fortuna non battente, ci ha accompagnato per tutta la salita.
Sotto il tempio di Yamunotri ci sono delle vasche con acqua calda sulfurea, un fenomeno frequentissimo nell’Himalaya, motagne giovani, ancora in ebollizione. Come in altri posti anche qui la tradizione e’ di bollire le patate o sacchetti di riso che si comprano sulle bancarelle. Poi si compie il bagno rituale, separati tra uomini e donne. Purtroppo la sezione femminile, un piccolo antri buio pieno zeppo di signore che armeggiavano con sottovesti e sari, non era molto invitante, e quindo ho rinunciato al bagno caldo, ma nel tempio sovrastante ho ricevuto la benedizione della dea Yamuna, non so se vale lo stesso.
Pare che chi si bagni in queste acque sia risparmiato da una morte violenta. Ma quando ho chiesto se era vero ai miei compagni di viaggio, mi sono accorta che in realta’ non sapevano nulla della storia mitologica di Yamuna e Yama e della mitologia legata al posto. Ho notato anche che non c’erano ‘’sadhu’’, di solito presenti in gran numero in queste luoghi sacri. Qualcuno mi ha detto che sono nelle foreste o in caverne in quota a meditare. In effetti sarebbero pazzi a stare in una calca del genere. Di sicuro avranno delle vasche di acqua calda tutte per loro in mezzo alla neve...
Piu’ che la Yamuna, per me e’ stato piu’ interessante osservare il fiume umano che saliva in tutti i modi sulla montagna per bagnarsi nelle sorgenti e portare a casa le ampolle di acqua sacra (‘’da versare sulle pire funebri’’ mi e’ stato detto). Avendo gia’ compiuto il Yamarnath Yatra, in Kashmir (lo Shiva linga di ghiaccio), sapevo gia’ di questi fenomeni collettivi che poi sono simili i pellegrinaggi nostri, a Lourdes o a Santiago di Campostela.
Mi sono accorta di come la religione sia veramente la colla dell’India. Ho incontrato gente del Tamil Nadu, del Madhya Pradesh, Rajasthan, Mumbai e Gujarat. Su questi sentieri del Char Dham si vede l’India intera, nelle sue diverse lingue, cibo e indumenti. Si parla in telugu, marathi, tamil, malayalam e altri dialetti, oltre agli idiomi nazionali dell’hindi e inglese. Si trovano spesso gruppi di amici come i miei compagni che avevano un pacchetto di dieci giorni per il Char Dham o le cinquanta donne di Ahmedabad che stavano (in cinque o sei camere!) del mio albergo. Ma ci sono anche delle famiglie della media borghesia arrivate fin quassu’ in macchina in fuga dalle afose pianure di Delhi, Uttar Pradesh, Haryana o Punjab con il pretesto religioso...
L’immagine piu’ terrificante e’ stata pero' quella dei portatori nepalesi, gli ''sherpa'' che con una gerla sulla schiena attaccata alla fronte, portano su quelli che non riescono (o vogliono) camminare. Ho visto alcune donne che pesavano almeno 70 kg. E’ senza dubbio uno dei mestieri piu’ duri che abbia mai visto. ‘’Solo i nepalesi ci riescono’’, piccolo e tarchiati, le gambe che tremano e che sembramo cedere da un momenti all’altro e una perpetua smorfia di dolore stampata sul viso da cui scendono gocce di sudore.
Dopo di loro, ci sono quelli delle portantine, costretti a marciare simultaneamente come i soldati, e che portavano donne e uomini grassissimi.
A fine giornata, la pioggia, poi aveva trasformato il sentiero in una coltre puzzolente di fango, letame dei muli e urina. Le carovane e i portatori poi si erano messi a correre, sballonzollando i corpi dei loro clienti coperti da teli di plastica. Alcuni muli poi avevano iniziato a ragliare e a tirare calci. Nei punti piu’ stretti, si creavano degli assurdi ingorghi tra i pellegrini piu’ poveri in ciabatte infradito che scivolavano a ogni passo. I padroni dei muli che urlavano ‘side, side’’, i quattro uomini cavallo delle portantine che praticamente facevano il vuoto intorno a loro e i poveri nepalese, piegati sotto le loro gerle. Insomma una scena da girone infernale riservato a idolatri e pagani, naturalmente.
Circa un secolo fa, un maharaja di Jaipur ha costruito qui un tempio in onore della dea Yamuna, personaggio mitologico che e’ sorella di Yama, divinita’ della Morte e di Surya, il dio Sole. Con gli anni e dopo diversi terremoti, intorno al tempio e’ sorto un ashram e diverse strutture di cemento decisamente orribili, ma - si sa – e’ inutile cercare nell’induismo canoni estetici che appartengono alla tradizione filosofica greca e occidentale.
Per la natura rigogliosissima, le foreste profumate di cedri himlayani (‘’deodar’’) e di rododendri puntellate di cascate e del bianco scintillante dei ghiacciai, il posto ha invece una grande energia.
Mi piace molto l’idea di venerare i fiumi e associarli all’idea di ‘’madre’’, origine della vita. L’acqua sorgente di vita, e’ un concetto universale che si trova anche nel cristianesimo. Non e’ con l’acqua del Giordano che Giovanni Battista ha battezzato Gesu’? La medesima acqua del fonte battesimale e che si asperge in chiesa durante la messa...L’acqua...tra un po’ di giorni gli italiani sono chiamati a esprimersi sul questa preziosa risorsa in un referendum. Il concetto e la simbologia dell’acqua e’ forse quello che piu’ mi affascina in questo pellegrinaggio del Char Dham, le quattro sorgenti del Gange.
Il tempio di Yamunotri e’ incastonato in fondo alla vallata a cui si arriva dopo 6 chilometri di cammino abbastanza facile e agevole non fosse per la folla di devoti (‘’yatri’’), muli, portatori e portantine, trattorie, negozi e anche la polizia con i fischietti. Non certo una combinazione ideale per la sacralita’ del luogo.
La povera madre Yamuna – ‘’Jai Mata Devi’’ (Viva la Madre divina ) e’ quello che ripetono a ogni svolta della mulattiera di cemento – sembra essere bisfrattata anche qui oltre che a New Delhi, dove funziona da rete fognaria per la metropoli.
Lungo il sacro torrente, in prossimita’ delle dhaba e degli ambulanti di chai, sorgono intere discariche, soprattutto bottiglie e bicchieri di plastica, oltre agli impermeabili usa e getta. Mi hanno detto che i rifiuti biodegradabili sono interrati e la plastica bruciata, certo pero’ non e’ un bello spettacolo.
Il sentiero parte da Janki Chatti, un ex alpeggio con una decina di baite baite che vedo, oggi trasformato in parcheggio e immensa stalla per le centinaia centinaia di muli con i campanelli e le bardature colorate che vanno su e’ giu’ per trasportare anziani, bambini, cardiopatici e anche moribondi. La stagione e’ corta qui, solo sei mesi, poi l’intera vallata si chiude e anche i bramini del tempio se ne vanno.
Dal villaggio di Karadhi, dove mi sono fermata per la notte, c’e’ un’ora e mezza di macchina. In passato la strada si fermava prima a Hanuman Chatti e quindi c’erano 6 km in piu’ da fare a piedi.
Non volendo usare lo scooter, ho scroccato un passaggio a un gruppo di uomini provenienti dal Maharashtra occidentale che mi hanno poi ‘’adottata’’ nella camminata.
Sono partita alle 4.30, era ancora notte e due ore dopo ero a far colazione all’inizio della mulattiera con il gruppo. Verso le 11, camminando senza fretta, eravamo in cima. Una pioggia a intermittenza, per fortuna non battente, ci ha accompagnato per tutta la salita.
Sotto il tempio di Yamunotri ci sono delle vasche con acqua calda sulfurea, un fenomeno frequentissimo nell’Himalaya, motagne giovani, ancora in ebollizione. Come in altri posti anche qui la tradizione e’ di bollire le patate o sacchetti di riso che si comprano sulle bancarelle. Poi si compie il bagno rituale, separati tra uomini e donne. Purtroppo la sezione femminile, un piccolo antri buio pieno zeppo di signore che armeggiavano con sottovesti e sari, non era molto invitante, e quindo ho rinunciato al bagno caldo, ma nel tempio sovrastante ho ricevuto la benedizione della dea Yamuna, non so se vale lo stesso.
Pare che chi si bagni in queste acque sia risparmiato da una morte violenta. Ma quando ho chiesto se era vero ai miei compagni di viaggio, mi sono accorta che in realta’ non sapevano nulla della storia mitologica di Yamuna e Yama e della mitologia legata al posto. Ho notato anche che non c’erano ‘’sadhu’’, di solito presenti in gran numero in queste luoghi sacri. Qualcuno mi ha detto che sono nelle foreste o in caverne in quota a meditare. In effetti sarebbero pazzi a stare in una calca del genere. Di sicuro avranno delle vasche di acqua calda tutte per loro in mezzo alla neve...
Piu’ che la Yamuna, per me e’ stato piu’ interessante osservare il fiume umano che saliva in tutti i modi sulla montagna per bagnarsi nelle sorgenti e portare a casa le ampolle di acqua sacra (‘’da versare sulle pire funebri’’ mi e’ stato detto). Avendo gia’ compiuto il Yamarnath Yatra, in Kashmir (lo Shiva linga di ghiaccio), sapevo gia’ di questi fenomeni collettivi che poi sono simili i pellegrinaggi nostri, a Lourdes o a Santiago di Campostela.
Mi sono accorta di come la religione sia veramente la colla dell’India. Ho incontrato gente del Tamil Nadu, del Madhya Pradesh, Rajasthan, Mumbai e Gujarat. Su questi sentieri del Char Dham si vede l’India intera, nelle sue diverse lingue, cibo e indumenti. Si parla in telugu, marathi, tamil, malayalam e altri dialetti, oltre agli idiomi nazionali dell’hindi e inglese. Si trovano spesso gruppi di amici come i miei compagni che avevano un pacchetto di dieci giorni per il Char Dham o le cinquanta donne di Ahmedabad che stavano (in cinque o sei camere!) del mio albergo. Ma ci sono anche delle famiglie della media borghesia arrivate fin quassu’ in macchina in fuga dalle afose pianure di Delhi, Uttar Pradesh, Haryana o Punjab con il pretesto religioso...
L’immagine piu’ terrificante e’ stata pero' quella dei portatori nepalesi, gli ''sherpa'' che con una gerla sulla schiena attaccata alla fronte, portano su quelli che non riescono (o vogliono) camminare. Ho visto alcune donne che pesavano almeno 70 kg. E’ senza dubbio uno dei mestieri piu’ duri che abbia mai visto. ‘’Solo i nepalesi ci riescono’’, piccolo e tarchiati, le gambe che tremano e che sembramo cedere da un momenti all’altro e una perpetua smorfia di dolore stampata sul viso da cui scendono gocce di sudore.
Dopo di loro, ci sono quelli delle portantine, costretti a marciare simultaneamente come i soldati, e che portavano donne e uomini grassissimi.
A fine giornata, la pioggia, poi aveva trasformato il sentiero in una coltre puzzolente di fango, letame dei muli e urina. Le carovane e i portatori poi si erano messi a correre, sballonzollando i corpi dei loro clienti coperti da teli di plastica. Alcuni muli poi avevano iniziato a ragliare e a tirare calci. Nei punti piu’ stretti, si creavano degli assurdi ingorghi tra i pellegrini piu’ poveri in ciabatte infradito che scivolavano a ogni passo. I padroni dei muli che urlavano ‘side, side’’, i quattro uomini cavallo delle portantine che praticamente facevano il vuoto intorno a loro e i poveri nepalese, piegati sotto le loro gerle. Insomma una scena da girone infernale riservato a idolatri e pagani, naturalmente.
ALLE SORGENTI GANGE/4 - Verso Yamunotri tra le foreste di cedri himalayani
Oggi ho viaggiato quasi tutto il giorno fino alle 16 quando puntuale sono arrivati i nuvoloni da nord e si sono aperte le cateratte del cielo, ma per fortuna avevo gia’ trovato una camera nel villaggio di Kharadi, a un paio di ore da Yamunotri, le sorgenti del fiume Yaumuna, la prima delle quattro tappe del pellegrinaggio del Char Dham. La giornata e’ stata decisamente intensa, provo a sintetizzarla per punti.
- Non oso pensare quanta gente era stipata nell’hotel per la notte che e’ stata brevissima visto che gli ultimi sono arrivati a mezzanotte e alle 4 erano gia’ svegli. Dal fracasso e dal continuo bussare alla mia porta per dirmi di fare in fretta, penso sia stato un gruppo che credeva di essere di avere l’albergo tutto per se…. Quando tutto era silenzio sono uscita dalla mia tana e senza neppure fare colazione, ho lasciato senza rimpianti il paese.
- La pioggia di ieri sera ha lasciato spazio a un cielo strepitosamente blu’. Perfetto per viaggiare e per fare foto. Prima di fare colazione gia’ ne ho scattate una ventina al Gange che e’ e’ ancora imprigionato dalla diga di Tehri, ma molto piu’ piccolo.
- A colazione, o meglio una delle colazioni, perche’ mi fermo continuamente per far riposare il motore e per scattare, incontro un signore di Chennai, che non sa l’hindi e che e’ in visibile difficolta’ con i locali. E’ a meta’ del Char Dham, ha fatto Yamunotri e Gangotri, gli mancano Badrinath e Kedarnat.
- Per mia gioia e quella del piccolo motore dell’Honda Activa la strada scorre a valle dove finalmente costeggio il Bhagirathi (cosi’ si chiama il Gange a monte) che ha assunto l’aspetto di un normale torrente di montagna dalle acque bianche. Se non fosse per I contadini che arano con aratri di legno trainati dalle vacche, potrebbe essere la Dora Baltea in valle d’Aosta.
- Poco dopo Dharasu c’e’ il bivio, da una parte si va alle sorgenti dello Yamuna e dall’altra a quelle del Gange. Seguo il primo e mi ritrovo su una strada da asfaltare che mi costringe ad andare ai 10 all’ora.
- Entro nella vallata dello Yamuna, che vedo in basso, un rigagnolo argentato. Penso a come si reduce quando passa dietro il Taj Mahal e poi attraversa New Delhi.
- A un certo punto la strada si arrampica in una pineta odorosa, sono cedri dell’Himalaya (‘’deodar’’, albero di dio, dal sanscrito, vedi qui ). La strada e’ ricoperta di aghi e alla base dei lunghi tronchi dritti ci sono dei barattolini per raccogliere la resina che - pesno- sia usata per scopi farmaceutici e in particolare come repellente per gli insetti. Ragazzini lungo la strada vendono delle pigne secche enormi.
- La strada qui e’ puntellata di posti ristoro con bandierine colorate, sono baracche di fortuna ricoperti di teloni di plastica. Quando un bus di oellegrini si ferma c’e’ l’assalto al ‘’chai’’ e qualsiasi cosa di commestibile. Per fortuna hanno messo delle toilette chiuse ai bordi delle strade, per le donne soprattutto.
- Dopo Barkot, mi ferma la ‘’polizia turistica’’ che registra il mio nome su un librone chiedendomi di compilare anche lo spazio per i commenti, tipo su come e’ stato il viaggio, gli hotel, il clima (?!?). C’e’ un poliziotto, Rahul Chauhan, burlone e simpatico, che si fa fotografare con I miei occhiali da sole e che dice che una poliziotta che ha il suo stesso nome e’ sua moglie.
- La strada e’ di nuovo brutta, ci sono dei lavori in corso. Decido di mollare, ho paura che il povero scooter non regga oltre e poi c’e la pioggia imminente. Prendo una camera con presunta ‘’vista’’ sull’Himalaya e sullo Yamuna, che non c’e’ ovviamente, se non da un balconcino esterno. Non c’e’ elettricita’, ma neppure ieri dove mi sono fermata c’era. Quando arrivano i primi pellegrini, partono I generatori, sotto la mia stanza. Come ieri sera, l’assalto arriva verso le 20 quando decine di bus arrivano tutti insieme. Faccio amicizia con un albergatore. Sta aspettando 85 persone del Madhya Pradesh che hanno prenotato tre mesi fa… e che deve stipare in 17 stanze.
ALLE SORGENTI GANGE/3 – La ‘’nuova’’ Tehri e l’impatto con i pellegrini
Nell’incrocio principale di New Tehri, costruita al posto della vecchia citta' ora sommersa sotto il Gange, c'e' un monumento sferico che somiglia a un pallone da calcio. Ho chiesto a due tre persone, ma tutti mi hanno detto che e' per ''decorazione''. Il bello e' che dietro il pallone c'e' un mercato coperto che - giuro - ha la stessa forma di una cattedrale, tipo quelle goane, con una maestosa scalinata davanti. Ho chiesto se per caso era una vecchia ''chiesa'' (so la parola in hindi, e' girja ghar), ma lo hanno categoricamente escluso.
A parte le stranezze architettoniche, i poveri sfollati di Tehri non so se ci hanno guadagnato. Non so come era prima di sprofondare sotto il fiume Bhagirati, ma la sua nuova gemella a quasi mille metri piu' in su e' un orribile ammasso di cemento. Il tentativo di riprodurre la vecchia Tehri, gloriosa capitale del regno medioevale di Garhwal (vedi qui), non deve essere riuscito molto bene, nonostante la relica di una torre campanaria che era il simbolo della citta’.
Un ragazzo che era alla reception del mio hotel, uno di questi parallelepipedi di calcestruzzo con i lavandini nuovi ma senza tubo di scarico sotto, mi ha detto che ''30% e' contento, ma il 70% non lo e' affatto e preferiva stare a Tehri, che con la sua posizione strategica alla confluenza di due fiumi era il centro nevralgico della vallata. Lui aveva un ristorante prima.
Le proteste non ci sono piu' e nemmeno non c'e' traccia, ma tutti conoscono Sunderlal Baguguna, anziano pacifista e ecologista che si era battuto contro il progetto e che ancora oggi e' l'ispiratore delle battaglie contro le dighe. Abita con la moglie a Koty Colony, uno dei pochi villaggi risparmiati dalle acque. Dalla sua casa, c'e' una splendida vista dell'enorme bacino idroelettrico da cui spunta un’’’isola’’, la sommita’ di una collina dove si vedono i resti di un tempio e un palazzo storico. Una inserviente mi ha detto che era a Dehradun dove ha l'ufficio, ma sono riuscita ad avere un contatto.
Lasciandomi alla spalle la diga e il suo impressionante bacino lungo 50 chilometri, uno dei piu' grandi al mondo, mi sono addentrata nella vallata verso il corso superiore del Baghirati. La strada passa sulla cresta, non a valle e quando scende un poco, mi diverto a spegnere il motorre per sentire il silenzio della vallata.Ci sono pochi mezzi, solo bus e jeep di turisti.
Ma a causa di un temporale, che gia' si annunciava fin dal mattino, mi sono fermata prima del programma a Chamm e ho fatto il mio primo incontro con gli yatri. Il gestore dell'hotel, altro casermone, me lo aveva detto, ‘’aspetta due ore e vedrai cosa succede’’. Sono scesa a mangiare e mi sono accorta che praticamente ogni superficie disponibile e' stata occupata dai pellegrini. Nel ristorante e reception ci sono decine di corpi avvolti nelle coperte. Sembrano sfollati a qualche enorme catastrofe. La strada fuori e’ bloccata da decine di autobus in doppia e tripla fila. Ho parlato (a gesti perche' non parlavano ne' hindi ne' inglese ma solo marathi) con un gruppo che arrivava da Puna e che aveva appena completato il char dham in otto appena giorni giorni....Mi sento in colpa, io da sola a occupare una stanza dove c'e' un letto matrimoniale e un altro singolo....
ALLE SORGENTI GANGE/2 - Tehri, la citta' sommersa
Pensavo di seguire il Gange, che piu' a monte prende il nome di Bhagirati, invece la strada verso le sorgenti sale sulla montagna dietro Rishikesh e dopo una settantina di km di tornanti si ricongiunge con il fiume a Tehri, la citta' sommersa dall'omonima diga.
Appena inizia la salita, compaiono anche i famosi cartelli stradali gialli della Bro (Border Road Organization), cantonieri stradali spiritosi che hanno disseminato l'Himalaya di rime curiose sulla sicurezza stradale. In questi anni di peregrinazioni ho una discreta collezione di street board che oggi ho arricchito con nuovi slogan, tipo ''Licence to drive, not to fly''. In piu' mi sono messa a fotografare anche quelli in hindi, almeno quelli che riuscivo a tradurre.
La salita e' stata graduale, ho raggiunto i 1600 metri di Chamba, su un cucuzzolo, e poi giu' a Tehri, storica citta' sede di un regno indiano e centro di commercio dell'India britannica, oltre che punto di confluenza di due tributari del Gange. In realta' pero' Tehri non esiste piu' dal 2006 quando circa 100 mila abitanti sono stati evacuati nei punti piu' alti della profonda vallata dove oggi sorge New Tehri. Le autorita', come risarcimento hanno costruito delle casette a schiera, da lontano sembrano le colonie ebraiche.
Arrivando da Chamba si vede, lontanissima, sul fondo la macchia azzurra intenso del bacino profondo oltre 260 metri formato dalla diga che e' una delle piu' grandi in Asia, ma anche quella piu' controversa. (se volete saperne di piu', cliccate qui)A parte il danno ecologico, il problema sembra essere l'alto rischio sismico della zona. L'enome riserva d'acqua e' utilizzata per produrre elettricita' destinata a New Delhi, ma anche per irrigare le campagne sottostanti.
Gli oppositori, protagonisti all'epoca di scioperi di strenui scioperi della fame per fermare lo scempio ambientale, denunciano il prosciugamento del Gange, fiume sacro. Altre dighe sono in costruzione piu' a monte e le proteste continuano ancora ora. So che al Jantar Mantar di Delhi e' appena iniziato un nuovo digiuno degli attivisti a cui si sono uniti anche gli indu-nazionalisti.
In effetti, mi fa un certo effetto pensare che negli abissi lago ci sia una citta' sommersa. Il bello e' quando ho chiesto a un poliziotto di un hotel, di cui ho letto nel libro Sacred Water (2001) di Stephen Alter (che si e' fatto a piedi il Char Dham). Tracciando con le mani una linea immaginaria mi ha detto: ''under water , madam''.
I 150 anni dell'Unita' d'Italia visti da New Delhi
Grazie all'ambasciata e ad alcuni sponsor privati, anche gli italiani di New Delhi hanno festeggiato i 150 anni dell'Unita'. Stasera i 424 posti dell'auditorium Stein dell'Habitat Center erano tutti occupati per un mini concerto di alcune aria di famose opere, tra cui Rossini, Mascagni, Verdi, Puccini e Mozart interpretate da un trio composto dal maestro e pianista Alessandro Amoretti, dalla soprano Francesca Patane' e dal baritono Marco Chingari.
C'era piu' o meno tutta la comunita' degli espatriati, tra diplomatici, imprenditori, alcuni religiosi e connazionali di passaggio. Dai commenti generali e' stato detto che e' stata un'ottima performances, anche se con repertorio un po' difficile per un pubblico di non intenditori.
Ma per alleggerire i toni e rompere la formalita' ci ha pensato il tenore Chingari che a sorpresa ha invitato tutti quanti a cantare ''O Sole Mio''. Poi, a chiusura, l'Inno di Mameli, a grande richiesta dei presenti.
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