Siccome mia figlia ha cambiato scuola, da un po’ di tempo vado a fare colazione all’American School, nel quartiere diplomatico di Chanyakiapuri. Ho abbandonato il Barista-Lavazza di Khan Market e purtroppo anche il Lodhi Garden. Dico purtroppo perché adesso vado a fare jogging a Nehru Park che ha un percorso più lungo che mi spacca le gambe.
Il campus della scuola americana è il sogno di ogni studente. Sembra quasi finta per me che ho fatto la terza media in una scuola di periferia, di quelle costruite in fretta e furia per contenere la spinta d’urto dei baby boomers e dove ogni giorno alla ricreazione c’era un pestaggio. Gli studenti mi sembrano comparse di un telefilm americano. Vedo i ragazzi, di tutte le razze, colori e lingue, camminare con il laptop sottobraccio. In biblioteca sono seduti a leggere sui divani. In piscina sono a fare vasche con davanti il cronometro. I professori che ti sorridono. Insomma, un mondo perfetto. Mi sale la depressione a pensare a come ho fatto io le medie in Italia. Per non parlare dell’Università a Torino. Va anche detto che tutto cio’ si paga salato e che i ragazzi appartengono a una fortunata elite. Ma non sembrano montarsi la testa e soprattutto sono determinati a sfruttare l’opportunità unica di studiare in un ambiente internazionale. Questo succede in India, ma penso capiti anche nei college degli Usa.
L’altro giorno mentre ero persa in queste considerazioni davanti a un caffelatte, mi è capitato sottocchio proprio a fagiolo un editoriale di Thomas L. Friedman sul New Yok Times in cui si esaltano le virtù dell’immigrazione e del melting pot. Friedman è uno dei miei preferiti. E’ anni luce in avanti quello che si scrive sui giornali italiani (che leggo ormai solo raramente). Questo pezzo in particolare, ne farei una lettura obbligatoria in Italia, dove gli immigrati sono ancora i “vu cumpra” e i bambini stranieri a scuola sono visti come un pericolo e non come una risorsa.
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