Lahore, tra inferno e paradiso
Di record in record. Ieri eravamo a 47 gradi. Nella mia guesthouse hanno portato i materassi in terrazza e hanno dormito sotto le stelle. Mi sa che faró anch'io cosí ora, tanto non c'é pericolo di zanzare. Non ci sono altri esseri viventi in giro a questa temperatura. Ma c'é qualcuno ancora piú coraggioso di me. Nel primo pomeriggio stavo andando dal Forte Shahi (una copia piú piccola del Forte Rosso di Delhi) alla bella moschea in stile persiano di Wazir Khan. Il bazar era deserto di domenica, a parte qualche negozio di tabla e una fantastica giostra con i cavalli di legno azionata a mano. A un certo punto incrocio un'altra moschea chiamata Sunheri (dorata), un piccolo capolavoro di arte mughal in marmo bianco e scintillanti cupole dorate. E' li' che é avvenuto il mio primo incontro con un "ulema", uno studioso di Islam. Mi ha detto di chiamarsi Usman. In tunica bianca, con un turbante verde coperto da un velo e un grosso turchese al dito, stava mormorando delle preghiere. Prima di scattare una foto, lo saluto con un "Salam alekum". "Italiana?" mi dice subito. Sorpresa, gli chiedo come ha fatto ad indovinare. "Dal viso e dal colore della tunica". In effetti vado in giro con colori tenui che da queste parti non si usano, anche se sospetto che probabilmente qualcuno lo abbia avvisato. Da quando sono scesa dal risció almeno dieci persone mi hanno chiesto la nazionalitá. "Giornalista?"' mi chiede poi. Due a zero. Gli dico é molto perspicace e che ha un inglese oxfordiano perfetto. "Studiato a Londra?" domando. "No, ma ho molti amici e ho fatto la guida turistica. Adesso sto studiando l'olandese". Osservo le sue mani bianchissime che tiene sempre congiunte davanti a se. Mi racconta la storia della moschea e della devozione religiosa di Aurangzeb che io ho definito il piú crudele dei mughal. "Se i mughal erano cosí feroci allora perché in India c'é ancora una maggioranza di indú?". Incasso il colpo. Non mi ricordo poi perché mi metto a ridere un po' sguaiatamente su una battuta. "Ti ricordo che nelle moschee non si puó ridere". Giusto. Tempo scaduto, penso, ma invece di congedarmi, si offre di accompagnarmi nella moschea di Wazir Khan che é a due minuti. Prima di uscire si spalma sul viso un po' di olio profumato da un flaconcino. Me ne offre anche un po'. E' una fragranza decisamente femminile, glielo faccio notare per scherzo, ma non ride nemmeno un po'. A meta cammino si ferma a comprarmi un lemonsoda. "Perché non ne prendi anche tu?" domando. Mette una mano davanti al petto in segno di scusa: "oggi digiuno per 16 ore, acqua compresa". Continua a salmodiare i nomi di Allah mentre io tracanno in un fiato la bevanda. A 47 gradi mi sembra a dir poco eroico. Penso che anche i cristiani una volta si sottoponevano a simili privazioni. Davanti ai mosaici della moschea di Wazir Khan il suo viso si illumina. "In paradiso vorrei portare con me tre cose, questa moschea, il forte di Lahore e il mio Pir (maestro sufi). Poi si volta e mi chiede cosa io vorrei portare. Esito, davvero non lo so, non ci ho mai pensato. "Non penso di andare in paradiso" rispondo debolmente tra atroci sensi di colpa...
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