Hyderabad, in cerca di acqua potabile a Cyderabad


Sono arrivata ad Hyderabad con molte aspettative. Qualcuno aveva detto che era una sorta di Miami indiana, perché rifugio di ricchi pensionati indiani. Altri mi hanno elencato le meraviglie e le ricchezze della città dei Nizam, aristocratici mussulmani stracarichi di perle e diamanti. Io stesso poi l’avevo definita una delle Silicon Valley indiana. Boh. Nei miei tre giorni di peregrinazioni ho trovato veramente straordinario solo il “mutton biryani”, il riso giallo con pezzi agnello, che ho mangiato in una trattoria del quartiere di Abids. E poi le montagne di manghi dolcissimi davanti al Charminar, il monumento simbolo di questa Mecca del Sud dell’India, dove le donne vanno in giro velate come in Arabia Saudita. Forse avrei dovuto leggere il libro The White Mughals di Darlymple prima di venire qui, come mi ha detto un mio collega italiano. Del celebre passato di Hyderabab c’è ancora il forte e la cittadella di Golkonda, che nel Medioevo era la capitale di un regno che era ricchissimo famoso anche in Europa. Il celebre diamante Kohinoor arriva da giacimenti di qui, ora esauriti. Ho letto che l’incazzoso imperatore Aurangzeb ci mise nove mesi prima di espugnare la fortezza e ci riuscì solo grazie al tradimento di un ufficiale dell’esercito nemico.
Chiaramente per rievocare i fasti di Hyderabad, le montagne di perle (quelle ci sono ancora nel bazar), i cortei di elefanti, gli harem pieni di donne bellissime, ecc. ci vuole una buona dose di fantasia quando si viaggia nelle strade trafficatissime dove ho rischiato più volte di farmi mettere sotto.
Ci vuole anche molta immaginazione a cogliere l’aspetto di capitale dell’hi-tech. Il nuovo aeroporto (ho visto solo l’arrivo dei voli domestici) è un gioiello, ultramoderno e con un’architettura all’avanguardia. Sono sprofondata nei sedili dell’aeroexpress – il bus-shuttle – che mi ha portata in città. L’entusiasmo si è esaurito subito dopo. Nessuna sorpresa, sono sempre in India (per fortuna, forse).
Per cercare “Cyberabad”, il polo dei servizi, ho preso un paio di bus e sono andata in periferia a Madhapur. Ho attraversato una zona residenziale, verde e piena di cliniche, forse quella è la “Miami” e poi mi si sono presentati davanti i grattacieli di vetro cemento. Come a Gurgaon, il polo tecnologico di Delhi, gli edifici brillavano nel deserto costellato di baracche e discariche. Davanti al Cyber Towers, il “charminar” dell’altra Hyderabad, c’era una donna e due bambini che raccoglievano acqua pulita da un piccolo buco in terra dove una tubatura si era rotta. La donna mi ha detto che quello era l’unico modo per avere “acqua pulita”. Visitare giganteschi templi dell’IT indiano è impossibile per chi non ha un badge. Inventandomi una scusa sono riuscita a entrare nella mensa del “Cyber Gateway”, un parallelepipedo-monstre, che sorge lì vicino e in cui lavorano 9000 informatici. In quel momento c’erano decine di impiegati con il badge di Oracle, evidentemente in pausa pranzo. Poi ho visto alcuni di Dell e poi di Genpact, penso molti siano call center che lavorano di notte con gli Usa. In effetti non c’era molta gente in giro. Mi sono ricordata che una ragazza che lavora in un call center a Gurgaon mi ha detto che c’è un clima di terrore per via della crisi, nel senso che chi non produce viene sbattuto fuori senza complimenti…

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