L’altro ieri quando sono iniziate le elezioni mi trovavo davanti alla stazione nuova, quella vicino a Connaught Place. Erano le due del pomeriggio, sotto il sole a picco ci saranno stati 40 gradi. E c’era il solito ingorgo di bus, risciò, biciclette, coolies e motociclisti che come me cercavano qualsiasi varco disponibile pur di uscire dalla camera a gas dei tubi di scappamento. C’era un uomo magrissimo, scalzo, con il dhoti intorno ai fianchi che stava tirando piegato in due un carretto pieno di sacchi di yuta. Dietro c’erano due bambini, sui 6 o 7 anni, sudatissimi, che spingevano con il capo chino e lo sguardo assente. Molto probabilmente erano i suoi figli e lui era arrivato dai villaggi a vendere chissà quale mercanzia nella città. Ho pensato alle cose che avevo appena scritto sulle elezioni. “La più grande democrazia del mondo va al voto, 714 milioni alle urne per eleggere il parlamento, il più vasto esercizio democratico al mondo, la democrazia indiana si rimette in marcia, ecc,ecc”. Se è così quell’uomo chissà cosa voterà. Di sicuro qualcuno che gli promette un po’ più di soldi per comprarsi un paio di scarpe e mandare i figli a scuola. E non voterà quelli di 5 anni prima che non hanno mantenuto le promesse. Nutro forti dubbi che i 300-400 milioni di indiani (dipende dall’affluenza) vadano a votare secondo questo criterio. Forse lo fa l’1 per cento. Quelli che leggono i quotidiani inglesi come il Times of India, che da settimana martella con la campagna “Lead India” per sensibilizzare gli elettori sull’importanza del loro voto per cambiare il Paese…
Il mio amico Arjun, maestro di tennis, che considera la Tata Nano ancora “troppo cara”, arriva da un villaggio dell’Uttar Pradesh. Appartiene alla super casta dei Yadav (pare siano l’11% della popolazione indiana concentrati in UP e Bihar). Quando gli ho chiesto chi votava mi ha risposto senza esitazione Mulayam Singh Yadav, potente leader dell’Uttar Pradesh. “Of course, I am a Yadav” ha aggiunto. Lo so. Ho scoperto l’acqua calda. La politica indiana è dominata dagli equilibri di casta. Ma allora io smetto di chiamarla democrazia.
Rahul Gandhi e il caffè off the record
Quando l’altro pomeriggio il portaborse di Rahul Gandhi mi ha invitata ad un caffè con il suo capo insieme ad una decina di altri giornalisti ha subito precisato che era “off-the-record”. Non penso che il blog rientri nella censura. Non mi è mai piaciuta la pratica della chiacchierata informale esclusiva per pochi eletti. La potevo concepire forse quando facevo cronaca nera e c’erano informazioni che non si potevano diffondere senza pregiudicare le indagini. Nel caso di RG, come lo chiamano, non capisco cosa ci sia di tanto riservato e perché non possa tenere una bella conferenza stampa come fanno tutti i politici in campagna elettorale.
Comunque era la prima volta in tanti anni e dopo innumerevoli richieste di interviste cadute nel nulla che riuscivo ad avvicinare un Gandhi anche se off-the-record (sono davvero curiosa di sapere se i miei colleghi hanno rispettato le consegne). Anche se temo che ci fosse poco da scrivere. RG non ha detto nulla di quanto non si sapesse già. Che lui il premier non lo vuole fare, ma che sarà costretto prima o poi. Che il suo lavoro ora è quello di riformare il Congresso eliminando nepotismo e corruzione. “Come si entra oggi nel partito secondo voi?” ci ha chiesto in tono provocatorio. Pare che per fare il politico bisogna avere qualche parente o dei soldi. In pratica il Congresso non è democratico e lo ha ripetuto più volte. Quello che sta cercando di fare è di tenere elezioni per rinnovare i direttivi delle sedi locali dello Youth Congress, cosa che non è mai stata fatta. Secondo me è un lavoro davvero ostico e, come ha ammesso, solo lui “che porta quel cognome ha l’autorità per farlo”. “Datemi due anni di tempo e creerò il più grande movimento giovanile del mondo” ha promesso RG. Dopo i due anni non è escluso forse che assuma un ministero.
Non so quanto può interessare a dei lettori stranieri la democratizzazione della base del Congresso. Molto poco, immagino. Ma quando gli ho chiesto se si sposava mi ha risposto che “non lo sapeva”.
La chiacchierata si è tenuta nel giardino di casa, seduti in cerchio, mentre i camerieri ci offrivano il caffè e dolcetti. Si è presentato con la divisa di ordinanza, casacca e pantaloni bianchi e sandali di cuoio. Visto da vicino, ho notato che la sua carnagione è decisamente chiara, non è quella di un indiano (e neppure degli italiani che sono tutti abbronzati). Prima di congedarsi mi ha parlato in italiano. Mi ha chiesto se ero italiana, forse l’avrà capito dal mio accento. Per un istante mi è venuta voglia di rispondergli in inglese...poi mi sono ricordata che eravamo off–the-record.
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