Martin Luther King III, il sogno della non violenza


I have a dream…oggi sono andata a sentire una lecture di Martin Luther King III, il figlio della leggendaria icona dei diritti dei neri americani. E’ venuto qui in India con la moglie per visitare i luoghi del Mahatma Gandhi come ha fatto il padre esattamente 50 anni fa. Martin Luther King non ha conosciuto il Mahatma, ma è stato profondamente influenzato come Nelson Mandela. Devo dire che è stato emozionante vederlo perché un po’ gli somiglia, anche se è più grasso, e poi è un bravissimo oratore. Ci sarebbe stata bene un po’ di musica soul in sottofondo. Ha detto che se vogliamo davvero seguire gli insegnamenti del Mahatma e di suo padre, bisogna lanciare una “rivoluzione non violenta” e che bisogna coinvolgere i “terroristi nel dialogo e nella riconciliazione”. Già… come se qui fosse facile con le macerie del Taj Mahal di Mumbai ancora fumanti. Il Mahatma diceva “che occhio per occhio e il mondo diventerà cieco”. Proprio come il vicolo cieco in cui si trovano i conflitti in Iraq, Afghanistan, Sri Lanka, Palestina e Darfur. Il “sogno” di Martin Luther King jr si è materializzato alla Casa Bianca dove da gennaio siede per la prima volta un afroamericano, ma non nel resto del mondo. Il concetto di non violenza rimane una semplice utopia. Nel 1959 c’era la corsa al riarmo di Usa e Unione Sovietica oggi c’è la guerra contro l’integralismo islamico.
“Il nostro secolo non è meno violento dello scorso secolo” ha detto King nello stesso palazzo dove 50 anni fa suo padre incontrò uno stanco e invecchiato Jawaharlal Nehru. C’è una bella fotografia li ritrae insieme e che gli è stata regalata come ricordo.
Quando il reverendo King, morto di morte violenta come il Mahatma, arrivò in India per il suo pellegrinaggio spirituale proclamò in un discorso (ascolta qui) che in India "lo spirito di Gandhi era più grande di quanto si credeva"…non so se Martin Luther King III oggi può dire lo stesso.

Poste Indiane, il mistero dell’affrancatura

Oggi voglio sollevare un problema che probabilmente interessa solo me qui in India. Primo, perché penso di essere l’unica che si reca di persona all’Ufficio Postale per spedire la corrispondenza, invece di inviare autisti, valletti, cuochi, domestici che qui sono disponibili in larga quantità e a basso costo. Secondo, perché penso di essere forse una delle poche utenti superstiti di questo vecchio sistema di social networking nell’era di Facebook.
Di solito vado nell’ufficio centrale in Lodhi Road che ha il vantaggio di essere sempre deserto e di rimanere aperto fino alle 18.
Il quesito che vorrei tanto fare al direttore delle Poste Indiane è il seguente: “Perché non mettete a disposizione dell’utenza dei tamponi per inumidire la colla dei francobolli?”. Sono ormai sette anni che cerco di carpire i misteri dell’affrancatura e delle buste indiane che sono prive di striscia incollante o adesiva. Quello che fanno tutti è di usare la colla disponibile di fianco allo sportello. Si trova dentro un barattolino appiccicoso e per prenderla c’è di solito una biro rotta oppure un bastoncino di legno. Molti usano i bordi bianchi dei francobolli dopo averli staccati, liste di cartoncino o semplicemente quello che capita comprese le cartacce in terra. I più disperati come me usano le dita. E’ come pescare nel barattolo della marmellata e poi spalmarla sulla busta. Premi i francobolli e spunta colla ovunque. Cerchi di pulire e si leva il francobollo. E ricominci da capo. Siccome il ripiano non è mai pulito e neppure le tue dita, alla fine rimangono delle larghe chiazze di sporco grigiastro. Ogni volta penso a chi riceve la busta zozza e appiccicosa dall’India…
Visto che i francobolli indiani hanno ora la colla, possibile che nessuno abbia mai pensato di mettere a disposizione un tampone umido? Lo confesso: siccome non so mai dove pulirmi le dita (usare i tovagliolini di carta è ancora peggio, si incolla tutto) a volte per bagnare il francobollo uso la saliva. Una bella leccata e via. Ma devo stare attenta a che nessuno mi veda. Una volta la funzionaria dietro lo sportello ha fatto una faccia disgustata quando mi ha visto mettere sulla lingua i francobolli che mi aveva appena dato. “La colla è dietro di lei” mi ha detto con un tono tra il perentorio e il compatimento che di solito si riserva ai “bianchi”, ai “gora”, che hanno strane manie, tra cui quella altrettanto disgustosa di usare la carta igienica in bagno invece di sciacquarsi con l'acqua. Con tutto rispetto per le differenze culturali, però un tampone umido….

Summit sul clima a Delhi, perché non cominciamo a spegnere l’aria condizionata?


Sto seguendo in questi giorni a Delhi un forum mondiale sul cambiamento climatico pre Copenhagen organizzato dall’indiano R.K Pachauri, la barbuta Cassandra delle sciagure ecologiche prossime venture e per questo anche Nobel per la pace nel 2006 insieme ad Al Gore. Il riscaldamento terrestre, che ai miei tempi si chiamava inquinamento, è oggi l’ultimo dei pensieri a turbare i sonni dei leader mondiali. Lo scioglimento dei ghiacciai himalayani e l’inabissamento delle Maldive non sono poi così gravi rispetto al fallimento delle banche di tutto il mondo, cosa che di fatto sarebbe avvenuta senza l’intervento pubblico.
L’ecologia non va più tanto di moda. A Delhi è arrivato anche il segretario generale dell’ONU Ban Ki-moon per ricordare i doveri del trattato di Kyoto, ma nessuno se n’è accorto.
Per fortuna la recessione mondiale farà respirare un po’ il pianeta. La pressione sulle risorse si è allentata. Si consuma meno petrolio, meno acciaio e a quanto pare si mangia e si beve anche di meno. Ma per quanto? Pachauri dice che appena ci sarà la ripresa i prezzi del greggio torneranno come prima e allora le tecnologie “pulite” (tra cui ora ci mettono anche il nucleare), saranno di nuovo attuali. Il ritornello dominante delle varie sessioni del forum, di una noia mortale (nonostante gli sforzi di Nick Gowing, l’anchorman della Bbc, che davvero vorrei sapere quanto prende per moderare i dibattiti), è che la lotta al cambiamento climatico è “un’opportunità” per rilanciare l’economia mondiale e creare posti di lavoro. E’ l’idea lanciata da Barak Obama nel suo new deal ecologico. Convertire le economie dipendenti dal carbone a economie pulite o verdi sembra essere la bacchetta magica in grado di salvare il capitalismo mondiale. Al forum di Delhi ci sono le grandi industrie del settore, francesi, tedesche, americane, purtroppo nessun italiano a parte il direttore dell’Enea, Luigi Paganetto. Pannelli solari, marmitte catalitiche, batterie ricaricabili, c’è tutto un mondo da inventare appena la lobby del petrolio molla la presa. Io ho perfino comprato oggi in uno stand di un’azienda indiana una torcia elettrica ricaricabile con la manovella. Lo so, sono caduta nella trappola del neoconsumismo ambientalista. Ma se serve a garantire la pagnotta ben venga. Il problema è che la garantisce solo ad alcuni e non ad altri. Non si può parlare di ambiente quando per esempio si consumano centinaia di bottigliette di plastica per l’acqua come ho visto oggi sui tavoli. Oppure quando si tiene l’aria condizionata a manetta nella sala della conferenza quando fuori non ci sono neppure 20 gradi. Facendo appello alla coscienza ecologica dei presenti, ieri ho proposto a Nick Gowing di spegnere l’impianto di condizionamento che oltretutto è anche dannoso per la salute. Nessuna reazione, piatta totale, nessuno si è risvegliato dal torpore pomeridiano post buffet.

PS Due giorni dopo sono ritornata al convegno. Erano tutti in manica di camicia, compreso Nick. Avevano spento i condizionatori