Da qualche tempo ho cominciato a pentirmi di avere scelto il mestiere di giornalista. Dopo quasi tre decenni - ho iniziato che ero ancora minorenne - mi vengono dei dubbi. Ma davvero voglio continuare da grande a fare la pennivendola? “Sempre meglio che lavorare” come disse Luigi Barzini junior, il quale però mi risulta avesse un buon stipendio. Ero appena arrivata in India, quando una sera a casa dell’allora rappresentante della Piaggio, sono stata presentata a Tiziano Terzani, già versione mistica con kurta pijama bianca e barba da profeta. Era venuto giù dalla sua baita di Almore. “Ah, anche tu fai la pennivendola!” mi disse a mo’ di sfottò. Mi ricordo ci rimasi male e lo bollai come un arrogante pallone gonfiato. Ma ora capito il vero significato delle sue parole.
La crisi ha picchiato duro sui free lance che l’internet aveva già reso inutili. Sto parlando della carta stampata, ovviamente. Chiunque da qualsiasi posto può scrivere di qualsiasi cosa senza bisogno di un editore. Qualsiasi tipo di informazione è fruibile gratuitamente o con la sola fatica di tradurre dalla lingua d’origine. Chi è ancora disponibile a pagare per un pezzo a meno che non sei un premio Pulitzer o non hai un’intervista con Osama Bin Laden (meglio se scampato ad un overdose di cocaina in compagnia di un harem di viados)? Non c’è da stupirsi se ricevo ogni tanto proposte di collaborazione non pagate o compensate in maniera irrisoria. Un po’ di tempo fa una testata on line che si occupa di giovani imprenditori fai-da-te mi ha proposto 20 euro ad articolo in inglese “comprensivo delle spese per telefonate”. Ho risposto che questo è il mio mestiere e non un hobby, poi li ho mandati cortesemente a quel paese. Ma forse sono fuori tempo e fuori luogo. Il giornalista si è trasformato in un robot che smista migliaia di notizie al giorno, pesca quelle più sensazionali e le traduce in italiano. Ieri mi hanno comunicato che Il Giornale ha abolito la redazione degli esteri. Povero Montanelli. “E’ confluita nelle cronache italiane” mi ha scritto Angelo Allegri, il mio (ex) caporedattore degli esteri. Non so se anche altri quotidiani abbiano fatto già la stessa cosa. Non so neppure se lo si sa che al Giornale non c’è più una redazione esteri. Regalo lo scoop agli amici del Barbiere della Sera.
Mentre le cronache dalla provincia hanno ancora senso perché nessuno trova su internet il resoconto del consiglio comunale di Biandrate, le corrispondenze dall’estero sono in via di estinzione soprattutto per Paesi “lontani” dall’Italia, come lo è appunto l’India, scomparsa da tempo dal periscopio della Farnesina. Un po’ di anni fa un altro mio ex caporedattore, Marcello Foa, oggi famoso bloggista, mi disse che il quotidiano così come l’abbiamo conosciuto ha fatto il suo tempo. Si trasformerà in qualcos’altro, non più un foglio di informazione. In effetti non ha più senso e di fatto le vendite dei quotidiani nazionali sono a picco. Mi sento obsoleta, come una macchina da scrivere accanto a un computer.
Uno spettro si aggira per il Ramada Hotel
Questo post è stato ripreso da www.reportonline.it
La scorsa settimana i giornali indiani si sono divertiti a punzecchiare i comunisti che hanno organizzato una riunione internazionale all’hotel Ramada Plaza, ultima aggiunta alla pacchianeria a 5 stelle della capitale. Il soffitto della hall è dipinta come la Cappella Sistina a cui sono appesi enormi lampadari di cristallo. Anche se non è proprio buon gusto, è comunque sempre lusso. I “compagni” di una trentina di Paesi si sono riuniti qui tre giorni a porte chiuse a discutere della crisi del capitalismo mondiale. A fare gli onori di casa c’erano i due principali partiti comunisti indiani, il CPI e il CPI (M), dove “M” sta per marxista (non chiedetemi la differenza). Entrambi hanno subito una batosta elettorale a maggio che ha dimezzato la loro presenza in Parlamento e che li ha privati del potere ricattatorio sul Congresso che ora ha mano libera sull’agenda liberalista. E’ da 11 anni che si tiene questo meeting dove si può vedere seduti fianco a fianco comunisti israeliani e palestinesi. E che rappresenta, secondo me, l’unico forum internazionale per il “Lao People’s Revolutionary Party” del Laos oppure per il “Workers Party of Korea” della Corea del Nord. Non ci sono molti posti al mondo dove i nordcoreani possono salire su un podio…
Ovviamente sono andata a curiosare se c’erano italiani. Erano in tre e rappresentavano Rifondazione Comunista e il Partito dei Comunisti Italiani, i superstiti dei falce e martello italiani. “Non è che dobbiamo sempre stare con le pezze al culo…” mi ha detto Andrea Genovali, responsabile per le relazioni internazionali del PDCI quando gli ho fatto notare della scelta not-politically-correct dell’hotel di lusso fatta dai compagni indiani. Forse ha ragione, io sono rimasta ai tempi di Cipputi. Ma lo sfottò sui giornali è continuato. The Indian Express sulle colonne settimanali di “Delhi Confidential”, pettegolezzi dal mondo politico, fa sapere del “tour turistico” dei delegati comunisti al Forte Rosso organizzato dai padroni di casa. “Per i compagni che hanno vissuto nel regno del Comunismo e assistito al collasso dell’Unione Sovietica e dell’Europa dell’Est – scrive - è stata una opportunità unica di vedere da vicino la gloria dei Mughal e della loro caduta. Ogni parallelismo è casuale”.
Baronessa Ashton, ero già sulla notizia....
Preveggenza o fiuto giornalistico? Un paio di settimane fa avevo messo come "scatto del giorno" una foto dell'ex commissaria europea al commercio Catherine Ashton che era venuta a New Delhi per il summit economico Ue-India. Mi aveva colpito che durante la conferenza stampa un collega indiano si fosse riferito a lei chiamandola "baronessa" come c'era scritto anche sul segnaposto del tavolo dove siedeva insieme al suo omologo indiano Anand Sharma, un gentiluomo anche se non di origini nobiliari, grande anfitrione che spesso incontro al mattino presto durante il mio jogging al Lodhi Garden. Non sapevo neppure che la Ashton, laburista, aveva del sangue blu. Pochi giorni dopo la visita a Delhi, la baronessa è stata scelta a guidare la diplomazia di Bruxelles.
2012, non c’è posto per gli indiani (e italiani)
Sono andata a vedere 2012, l’ultimo cataclisma fantascientifico sul grande schermo, che questa volta fa morire l’intera umanità in giganteschi terremoti e tsunami. Si salvano qualche migliaio di persone, più o meno, tra cui uomini politici, scienziati, facoltosi russi, gli operai cinesi che hanno costruito le “arche” e una famiglia tibetana. Come negli altri film di Emmerich, il regista delle apocalissi, mi diverte vedere il posto e ruolo riservato alle varie nazionalità. Gli americani ovviamente sono sempre quelli più potenti, ma per la prima volta compare anche il G8 (che è stato ora è stato scavalcato dal G20, ma al tempo delle riprese era ancora il principale forum). Solo le otto nazioni più potenti della terra vengono messe al corrente della fine del mondo. La Cina – superpotenza emergente – avrà il compito di preparare il piano di fuga e costruire le indistruttibili “arche” sotto la supervisione Usa e con i soldi dei ricconi che per salvarsi sborsano un miliardo di dollari a posto (solo?). Però i cinesi sono dipinti come “cattivi”, primo perché picchiano e deportano dei tibetani e secondo perché vorrebbero lasciare a terra gli operai che hanno costruito l’arca. I russi come al solito vengono dipinti come rozzi donnaioli senza scrupoli e convinti che con i soldi si possa comprare tutto. Poi c’è l’assoluta novità: per la prima volta vengono riconosciute le conoscenze e capacità scientifiche dell’India. Il primo a scoprire gli effetti di un’esplosione solare sulla crosta terrestre è un astrofisico indiano, a cui viene promesso un posto sull’arca, ma poi viene bidonato dagli americani e con lui la sua famigliola. In effetti è quello che sta avvenendo, gli americani sfruttano i cervelli indiani a poco prezzo e non mostrano nessuna riconoscenza. Messaggio per Manmohan Singh: non ti fidare di Obama. Per di più l’India e anche l’Himalaya spariscono dalle cartine geografiche insieme al resto delle terre emerse eccetto l’Africa (altro messaggio). Tutti i leader del G8 si salvano, a parte il presidente Usa che rimane a terra per solidarietà con i suoi connazionali e…indovinate chi altri? L’italiano che assiste insieme al Papa alla distruzione di piazza San Pietro. Forse Hollywood ha tentato di fare una rivalutazione dell'immagine di Berlusconi oppure non lo volevano sull’arca?
Fuksas, per favore salvaci dal traffico
In questi giorni il traffico a Delhi sembra impazzito. Per una settimana il cielo è stato oscurato da una spessa coltre di smog causato dai gas di scarico, ma anche dalla foschia tipica di questa stagione. Ieri mi trovavo in scooter sull’Aurobindo Marg, ridotta a un percorso di rally dai lavori della metropolitana. Eravamo tutti fermi. La gamba del motociclista davanti a me era incastrata tra un carretto di un ambulante di verdura e i nuovi mega autobus Tata “Marcopolo” con aria condizionata che hanno un tubo di scappamento largo come una grondaia. Viene fuori un getto di calore che sembra quello di un Boeing. Meno male che i bus vanno a metano e non a diesel. Improvvisamente mi è venuto in mente l’architetto e urbanista Massimiliano Fuksas, quello delle Nuvole dell’Eur e delle Bolle di Bassano del Grappa, ma anche quello della chiesa di Foligno, nuovo ecomostro di cemento nelle campagne umbre. Fuksas era stato invitato la scorsa settimana dall’Ambasciata Italiana per tenere una conferenza a New Delhi e a Mumbai. Nonostante la sua fama internazionale, non mi sembra abbia nessun progetto in India. D’altronde qui l’architettura contemporanea di ispirazione occidentale si è fermata a Le Corbusier. Per fortuna - aggiungo - vista la discutibile eredità lasciata dall’architetto franco-svizzero a Chandigarh, capoluogo del Punjub che, però - lo riconosco - è la più pulita e ordinata delle metropoli indiane. Tutto sommato in India ci sono (ancora) pochi obbrobri edilizi, anche perché non ci sono soldi per opere faraoniche e nelle megalopoli come Mumbai oltre la metà della gente vive ancora nelle baraccopoli o per strada. Rispondendo a una domanda di una studentessa di architettura, Fuksas si è lamentato del livello di traffico di Delhi e della qualità dell’aria. “Dovete fare qualcosa, così non potete andare avanti” ha detto con una certa enfasi. Seduto al suo fianco c’era l’architetto indiano Raj Rewal, che a differenza dell’archistar italiana, ha un approccio più umanistico e soprattutto più ecologico, ma stranamente non ha detto nulla. D’altronde che dire? A Delhi ci sono dai 15 ai 20 milioni di abitanti a spanne, perché è impossibile contarli. Come tutte le altre metropoli attrae come una calamita i poveracci e diseredati delle campagne di Up e Bihar. Ogni giorno si aggiungono mille nuovi veicoli immatricolati. Meno male che c’è stata una battuta di arresto con la crisi. A ottobre però le vendite di auto sono schizzate del 34 per cento con buona pace delle industrie automobilistiche straniere che puntano sull’India. E non è neppure ancora arrivata la Nano perché devono ancora costruire la fabbrica! Sabato scorso il Times of India ha pubblicato uno studio sulla “grande Delhi” (NCR si chiama ovvero National Capital Region) che comprende anche le città satelliti in un cerchio dal raggio di 300 km. Si prevede una popolazione totale nel 2011 di oltre 48 milioni di persone che nel 2021 salirà a 64 milioni e nel 2031 a 86 milioni. Decine di milioni di pendolari per lavoro, per studio e per altre ragioni ogni giorno confluiranno verso il centro di Delhi. Presto molti di loro avranno l’auto che oggi non si possono permettere. Penso che le attuali tangenziali e sopraelevate in costruzione saranno ridotte a vicoletti e ponti dei sospiri come a Venezia. Non ci sarà più una città, ma un asfissiante e assordante labirinto di asfalto. Che fare? Disincentivare l’uso dell’auto? Nessuno al mondo ci è finora riuscito. Una soluzione sarebbe disegnare le città secondo nuovi criteri, evitando gli errori e orrori urbanistici che noi in Occidente abbiamo commesso in passato. Perché non provare a rimpiazzare gli shopping mall, business center e grattacieli alla Dubai con lo shopping on line e il telelavoro? Tante isole verdi residenziali, dove il posto di lavoro è a casa o al massimo a dieci minuti a piedi. Con internet e fibre ottiche è possibile. E per fare la spesa c’è il negozietto del quartiere o si possono tenere gli ambulanti con il carretto che si vuole eliminare perché rallentano la circolazione. Utopia? Secondo me si può, basta che gli urbanisti e architetti pensino un po’ di più ai bisogni della gente e meno agli effetti della luce che filtra da un loculo di cemento.
Riporto qui di seguito il commento di Corrado Colombo ricevuto per email:
Vagabondando qua e là ho letto la nota sul suo blog relativa alla conferenza di Fuksas. Detto da architetto, complimenti per non essere caduta nella bufala del “grande maestro”. Premetto che io sono proprio un architetto da barzelletta, che parla da architetto e difende percezioni che la maggior parte della gente non condivide assolutamente, ma di fronte a certe prese per i fondelli mi ribello.
Io, devo dire, di fronte agli edifici di Chandigarh mi sono abbastanza emozionato, e forse proprio per la poetica tensione dialettica che percepivo tra la sua aulicità (e, d’altra parte, come ignorare storicamente l’enfasi che Nehru doveva pretendere nella nuova capitale) e l’incontro con il quotidiano. D’altra parte sono sempre stato affascinato dalla contaminazione, anche impropria, tra l’eccelso e il quotidiano, siano gli evangelici mercanti alle porte del tempio siano i venditori ambulanti sulla piazza dei tre poteri di Brasilia. Ad Ahmedabad, in un contesto fisico ed in un programma diverso, Le Corbusier ha comunque a mio avviso dato prova di forte capacità di confronto con la matericità propria del luogo.
Comunque, chiuso l’inciso, torniamo a Fuksas. Sono profondamente irritato da come la gente, anche colta e animata da rimarchevoli sensibilità in altri campi, tenda a farsi prendere in giro quando si parli di architettura e trasformazione dell’ambiente.
Da un lato, il gretto conservatorismo estetico della piccola borghesia che cerca il conforto dei valori consolidati (quante case abbiamo visto di amici “colti”, un po’ country, un po’ etniche, qualche pezzo di design storico conclamato… insomma rassicuranti) dall’altro l’acritica approvazione di qualunque cosa faccia il primo furbone che sappia usare come si deve la comunicazione.
Fuksas ne è l’esempio classico. Mi spiace dire cose che potrebbero dire Bondi o Berlusconi, ma le sue comparsate dal divo Santoro sono state una operazione degna del migliore gioco delle tre carte come si faceva tanti anni fa a Porta Palazzo. Balle, balle, balle e quattrini in tasca. Il nuovo vate dell’architettura, benedetto da San Michele (non lo amo molto, si capisce, vero?) è uno tra gli italiani con i redditi più alti almeno negli ultimi 3 – 4 anni. Anche nei deliri dei grandi maestri dell’architettura moderna c’era comunque una base di superego esasperato, di delirio di onnipotenza, ma era comunque finalizzato e subordinato al senso di una finalità etica generale, di una missione in cui il vantaggio personale non trovava spazio. Le Corbusier era convinto di poter cambiare il mondo, ma quando morì credo che l’unica ricchezza che lasciò ai suoi eredi sia stata una serie di disegni, oltre al modesto capannone di Jouan les Pins. Luis Kahn, tanto per restare a grandi che hanno segnato con tracce dell’architettura contemporanea il subcontinente indiano, morì stroncato dalle fatiche dei suoi viaggi in una stazione, sommerso dai debiti contratti per perseguire i suoi sogni.
Le nuove “archistar” (parolaccia, la uso scusandomi tanto per farmi capire) che riempiono il mondo con grattacieli storti, aggrovigliati, piegati, coricati… raccontandoci pure che sono concepiti con particolare sensibilità energetica (come se anche un bambino non capisse che il miglior approccio energetico consiste nel non costruire milioni di metri cubi utili solo a produrre profitto) con spregiudicatezza da couturiers milanesi, accumulano ricchezze personali da big dell’informatica.
L’etica di quanti sottoscrissero la Carta di Atene indubbiamente era un’altra cosa.
Due ultime notazioni. Può darsi che al momento Fuksas non abbia commesse in India,ma se è venuto a fare una conferenza di sicuro finirà per averla. Il nostro amico non fa viaggi per diporto!
La seconda è più seria. Credo sia importante, molto importante, pensare che i bisogni della gente non siano, e non debbano assolutamente essere, antitetici agli effetti della luce che filtra dalle aperture di uno spazio. Non può esser così. Non lo è mai stato da quando l’uomo cominciò a mettere le pietre l’una sull’altra, non lo è stato nella costruzione delle abbazie cistercensi, in cui, con l’applicazione dei principi di san Bernardo, l’uomo, costruttore secondo un principio divino, usava al meglio i materiali, la luce, la tettonica, gli schemi di riferimento per costruire spazi poetici e funzionali, rapportati al territorio ed al paesaggio in termini utilitaristici e di arricchimento nella trasformazione. Non lo è infine i grandi o quotidiani esempi di architettura contemporanea, della nuova costruzione, del riuso o comunque della reinvenzione del dialogo con la città esistente.
Facciamo attenzione, è importante, il costruire è un atto magico e poetico, l’uomo non se ne può privare se non con prospettive suicide, di perdita di considerazione per sé stesso e per la generazioni future. I tecnicismi (e il soddisfacimento dei bisogni può facilmente diventarlo) uccidono la globalità e la ricchezza di uno degli atti più importanti dell’agire umano.
Complimenti ancora per il suo lavoro che seguo ed apprezzo.
Dante si è fermato a a Mumbai
Mi piacerebbe veramente sapere quanti sono a conoscenza che a Mumbai esiste un manoscritto della Divina Commedia. Pare che al mondo esistano solo due copie originali del poema dantesco, una a Milano e uno appunto in una cassaforte dell’Asiatic Society di Mumbai. Di quella autografa non se ne sa nulla.
Proprio in questi giorni si è chiusa una mostra dedicata al prezioso volume del 1300 e ad altri tesori italiani, tra cui un manoscritto di Galileo Galilei e uno di Cicerone. Peccato che sia stato un evento tra pochi intimi. Almeno così mi pare da una breve ricerca sui giornali indiani che sono quasi tutti su internet. Peccato perché Dante Alighieri è uno dei nostri migliori ambasciatori della cultura e storia italiana all’estero. In un articolo di presentazione della mostra su The Indian Express (vedi qui) ho letto che Mussolini, ancora popolare qui in India, aveva offerto un milione di sterline per comprare il libro dalla fantomatica Asiatic Society di Mumbai, che è un club esclusivo di intellettuali retaggio dell’epoca coloniale. Il manoscritto dantesco (450 pagine illustrate rilegate in un volume in seta e pelle) era stato regalato nel 1820 da un noto collezionista e antiquario inglese che non voleva riportarlo in patria via mare. Non so se qualcuno l’abbia mai studiato e se sia disponibile una copia digitale, come mi auguro, in modo che sia accessibile agli accademici. E’ decisamente uno dei misteri della misteriosa India.
Quando ho proposto la notizia ad alcuni media italiani per cui collaboro, non c’è stata nessuna reazione. Evidentemente in Italia sono tutti impegnati tra viados e cocaina per occuparsi di un vecchio e polveroso manoscritto di Dante che giace nell’oscurità di una cassaforte di una banca di Mumbai. E che già sette secoli fa denunciava i vizietti della classe dominante.
PS A proposito di viados e cocaina segnalo questo gustosissimo pezzo di Cristiano Gatti sul Giornale
Proprio in questi giorni si è chiusa una mostra dedicata al prezioso volume del 1300 e ad altri tesori italiani, tra cui un manoscritto di Galileo Galilei e uno di Cicerone. Peccato che sia stato un evento tra pochi intimi. Almeno così mi pare da una breve ricerca sui giornali indiani che sono quasi tutti su internet. Peccato perché Dante Alighieri è uno dei nostri migliori ambasciatori della cultura e storia italiana all’estero. In un articolo di presentazione della mostra su The Indian Express (vedi qui) ho letto che Mussolini, ancora popolare qui in India, aveva offerto un milione di sterline per comprare il libro dalla fantomatica Asiatic Society di Mumbai, che è un club esclusivo di intellettuali retaggio dell’epoca coloniale. Il manoscritto dantesco (450 pagine illustrate rilegate in un volume in seta e pelle) era stato regalato nel 1820 da un noto collezionista e antiquario inglese che non voleva riportarlo in patria via mare. Non so se qualcuno l’abbia mai studiato e se sia disponibile una copia digitale, come mi auguro, in modo che sia accessibile agli accademici. E’ decisamente uno dei misteri della misteriosa India.
Quando ho proposto la notizia ad alcuni media italiani per cui collaboro, non c’è stata nessuna reazione. Evidentemente in Italia sono tutti impegnati tra viados e cocaina per occuparsi di un vecchio e polveroso manoscritto di Dante che giace nell’oscurità di una cassaforte di una banca di Mumbai. E che già sette secoli fa denunciava i vizietti della classe dominante.
PS A proposito di viados e cocaina segnalo questo gustosissimo pezzo di Cristiano Gatti sul Giornale
Salviamo Khan Chacha!
Uno dei miei posti preferiti al Khan Market è stato costretto a chiudere i battenti per una disputa immobiliare. La “kebaberia” Khan Chacha, un bugigattolo gestito da una famiglia musulmana, molto popolare tra i giovani e meno-giovani-ma-squattrinati come me, era uno dei pochi sopravissuti all’avanzata dei negozi di lusso e ristoranti superfighi del mercato più costoso di Delhi. D'altronde come possibile vendere panini di kebab a 35 rupie in un posto dove gli affitti sono come sulla Fifth Avenue? Però Khan Chacha faceva tendenza, un po’ come Luini, i panzerotti più buoni di Milano, dietro piazza Duomo. Era un posto diciamo, non proprio per i poveri, ma per alternativi, compresi giovani politici come Sachin Pilot o i kashmiri Abdullah, padre e figlio, o l’ecologista Nafisa Ali. Il proprietario dello stabile ha detto che non c’era nessun contratto e ha cacciato su due piedi Banda Hasan e i suoi due figli come è spiegato in questo articolo. Chissà se apriranno altrove? Intanto su Facebook sono già oltre 12 mila i fan di Khan Chacha…salviamolo!
Delhi, the “city of flyovers”
Stamattina ho letto sul giornale che Sheila Dikshit, la popolare governatrice di New Delhi, vuole fare della capitale una “city of flyovers”. Ero un po’ addormentata e pensavo di aver letto “flowers”, invece no. Ha detto proprio: “flyovers”, in inglese “sovrappasso”, un termine che ora mi è familiare, ma che secondo me usano solo qui. Si augura insomma che i visitatori che torneranno dai Giochi del Commonwealth in programma nell’ottobre 2010 portino a casa il ricordo di New Delhi come “città dei cavalcavia”. Ho già scritto di come questa città diventerà presto invivibile, soprattutto quando arriveranno le Tata Nano, non ancora in produzione, per fortuna. In questi giorni, vigilia di Diwali, anche i tanto lodati “flyovers” sono intasati dal serpentone di acciaio e di smog. Non mi aspettavo che una signora d’animo gentile, e per questo molto amata dai suoi concittadini, potesse essere orgogliosa di una città deturpata da cavalcavia, svincoli e sopraelevate di cemento armato. Seppur ripuliti da mendicanti e vacche, si tratta di obbrobri urbanistici e soprattutto delle barriere insormontabili per i pedoni. I sottopassi o passerelle pedonali sono stati praticamente dimenticati. O ci si arriva in macchina o non ci si arriva. Saranno pure necessari alla viabilità, ma cosi si trasforma una città a misura di auto e non più a misura d’uomo con buona pace delle industrie automobilistiche. “I flyovers eviteranno le code e faranno risparmiare benzina” ha detto Sheila annunciando trionfante che a novembre si potrà andare da Nehru Place fino all’aeroporto senza fermarsi a un semaforo. E anche senza vedere un fiore.
Yoga tantrico, ma che sarà mai?
Che l’India fosse un paese bacchettone, un po’ come da noi prima del 68, lo avevo capito. Ma non fino a questo punto. E’ successo che nel fine settimana mi trovavo a Rishikesh. Come al solito incuriosita dalla quantità di corsi di yoga, per cui Rishikesh è famosa nel mondo, sono finita in una lezione introduttiva di “Trika Yoga”, sottotitolo “esoteric yoga”. Intrigante, eh? L’orario, alle 9,30 del mattino mi andava bene, e poi come prima lezione era pure gratis. Mi aspettavo le solite contorsioni impossibili accompagnate da incomprensibili definizioni. Invece no, mi sono ritrovata davanti a una predica domenicale sulla corruzione della nostra società, sulla ricerca del materialismo, dell’esteriorità a discapito della conoscenza del nostro io. Parole che oggi neppure i preti di campagna più bigotti osano più pronunciare. Lo yogi, un giovane indiano, con British accent, era davvero un ottimo oratore. “Perché dedichiamo tanta attenzione al nostro corpo che è solo un involucro? E come se avessimo un mulo e invece di usarlo per trasporto, ce lo carichiamo sulle spalle tutto il tempo”. "Già ma lo yoga che c’entra?" mi sono chiesta abbastanza spazientita. Dopo la premessa Kushru Mistry è arrivato al punto. Yoga non è quello che si fa oggi “nelle palestre al ritmo dei Rolling Stones”, ma è una scienza esoterica, chiusa, accessibile solo a pochi adepti, “come la cabala per gli ebrei, il sufismo per i mussulmani e lo gnosticismo per i cristiani”. Lo yoga oggi sarebbe in via di estinzione, nonostante il proliferare di scuole e di maestri “che chiamano “yoga” una pratica che non è tale”. Chissà perché mi è venuta in mente la pizza, allo stesso modo ci vorrebbe una tutela della denominazione, ma l’esempio sarebbe stato irriverente. Secondo gli antichi maestri, “che avevano la pancia come vedete dalle foto appese qui ai muri” ogni "asana" (posizione) dovrebbe essere mantenuta per tre ore e 45 minuti in modo da mettere in contatto il nostro corpo con il resto dell’universo. Attraverso una certa posizione fisica e la concentrazione mentale attacchiamo la spina al sole o agli astri per ricevere l’energia di cui abbiamo bisogno”. Da ignorante come sono in materia, mi sono illuminata. Finalmente ho capito cosa è lo yoga, almeno credo. Ma il bello doveva venire. Dopo aver pubblicizzato il corso (ho visto dopo sul website che è una scuola internazionale ed è stata fondata da un ingegnere romeno che astutamente si è battezzato Swami Vivekananda, come il filosofo ottocentesco), Kushru ha detto che terrà anche un workshop di yoga tantrico, non incluso nel prezzo, di una settimana, dedicato a coloro (meglio coppie "così possono mettere a frutto subito quanto imparato") che vogliono potenziare la propria energia sessuale. “Qui non è come in Thailandia – ha detto con un certo imbarazzo – non posso insegnare certe cose senza che la gente mormori… non posso neppure mettere il corso sulle locandine…le voci corrono veloci qui a Rishikesh. Sappiatelo, inizia il 19 ottobre, costo 9 mila rupie, sono previsti anche dei filmati, ovviamente a casa mia…”. Di fronte al mio sguardo allibito poi ha aggiunto: “non sono porno, non preoccupatevi, è solo yoga!”.
La bomba H e il deserto di Pokhran
Nell’agosto del 2005 mi sono trovata per caso ad attraversare il deserto di Pokhran o Pokharan, che si trova più o meno a metà strada tra Jodhpur e Jaisalmer, in Rajasthan. Non è proprio un deserto, ma una tundra dove di tanto in tanto ci sono capanne, cammelli al pascolo e gruppi di donne con brocche d'acqua in testa. A qualche decina di chilometri dalla strada principale c’è un poligono militare usato per il test nucleare del 1974 di Indira Gandhi e per quello dell’11 e 13 maggio 1998 voluto dalla destra indu nazionalista e che colse l’intero mondo di sorpresa. Una delle mie più grandi curiosità da quando sono in India era di vedere il posto dove è avvenuta l’esplosione sotterranea dove pare ci abbiano costruito anche un tempio alla dea della potenza Shakti. C’è una sola foto, dell’ex premier Atal Behari Vajpayee, con il suo tunicone bianco, su un ponticello di legno che sovrasta una profonda frattura nel terreno. Ovviamente l’operazione Shakti è uno dei segreti meglio custoditi in un paese che si è fatto la bomba atomica da solo (con qualche input dall’Urss) in barba a tutte le regole internazionali. Chiedendo alla gente, con gesti alla Fantozzi, dove era esplosa “the bomb”, ho gironzolato un po’ per le strade dei villaggi, fino a quando sono stata fermata da un tizio, probabilmente un poliziotto in borghese, che mi ha impedito di andare oltre. Non ho visto nessun soldato e neppure dei segni della presenza di una base militare. Sempre da finta turista svampita ho poi chiesto a un po’ di persone che ho incontrato cosa si ricordavano dell’esplosione che - stando ai dati ufficiali - avrebbe provocato una scossa di magnitudo 4 o 5. Nessuno però aveva avvertito un terremoto o anche solo un boato che ha fatto tremare la terra sotto i piedi. Come era possibile? Fanno scoppiare una bomba atomica sotto la sabbia a dieci chilometri da te e non te ne accorgi neppure?
A confermare i sospetti che avevo avuto allora è stato uno scienziato, Santhanam, che nel 1998 aveva preparato il sito e istallato la strumentazione. Ad un seminario a Delhi un mesetto fa, dopo ben 11 anni, ha sputato il rospo. Uno dei cinque test, Shakti I, quello che doveva provare la bomba all’idrogeno, è stato un fallimento. “It was a fizzle” per usare la sua espressione. Un petardo, insomma, invece del botto da 45 kilotoni (tre volte Hiroshima) dichiarati ufficialmente. Ovviamente la rivelazione shock è stata smentite dagli altri scienziati nucleari e dallo stesso ex presidente Abdul Kalam, il “missile man” indiano. Il governo ha minimizzato per paura di scoprirsi con il Pakistan, proprio ora che Islambadab avrebbe acquisito nuove superiorità militari grazie ai soldi americani destinati alla lotta agli estremisti islamici. In una intervista ad Outlook di questa settimana K.Santhanam svuota il sacco e in maniera abbastanza brutale dice “che la bomba da 45 kilotoni è una evidente bugia, una BUGIA a caratteri cubitali”. Una delle prove è che non si è formato un cratere (quello che volevo vedere io…). A quanto pare, la confessione non è stata una sorpresa, molti lo sapevano, ma diciamo non avevano mai “osato” dirlo che era una bufala. L’unica cosa non chiara è perché Santhanam abbia parlato solo ora. Forse vogliono rifare il test? Qualcuno vuole screditare l’arsenale militare indiano? Purtroppo l’intervistatore non glielo ha chiesto.
Negli ultimi tempi c’è molta fibrillazione nel mondo della scienza. A luglio è stato varato il primo sottomarino nucleare made in India , che di “nucleare” ha però solo il nome, visto che il reattore nucleare da usare come propulsione deve ancora essere progettato e costruito. Pare che la moglie del premier Singh, chiamata a fare da madrina al varo, abbia varato un cassone di metallo praticamente senza motore. Ma tutti i media, passivamente, hanno celebrato l’arrivo dell’India nel club delle potenze dotate di sottomarini nucleari.
Poi c’è stata la sonda lunare Chandrayan I che il 31 agosto ha perso il contatto con la base di Bangalore. E’ durata quasi un anno: secondo gli esperti è già tanto e comunque prova le capacità dell’India ad andare nello spazio a low cost. Mentre infuriavano le polemiche sul fallimento della prima missione lunare, ecco piombare dal cielo la notizia del ritrovamento di molecole di acqua grazie a uno strumento di misurazione piazzato dalla Nasa. Pare che setacciando una tonnellata di suolo lunare si ottenga un bicchiere d’acqua. Intanto nel deserto del Rajasthan muoiono di sete.
A confermare i sospetti che avevo avuto allora è stato uno scienziato, Santhanam, che nel 1998 aveva preparato il sito e istallato la strumentazione. Ad un seminario a Delhi un mesetto fa, dopo ben 11 anni, ha sputato il rospo. Uno dei cinque test, Shakti I, quello che doveva provare la bomba all’idrogeno, è stato un fallimento. “It was a fizzle” per usare la sua espressione. Un petardo, insomma, invece del botto da 45 kilotoni (tre volte Hiroshima) dichiarati ufficialmente. Ovviamente la rivelazione shock è stata smentite dagli altri scienziati nucleari e dallo stesso ex presidente Abdul Kalam, il “missile man” indiano. Il governo ha minimizzato per paura di scoprirsi con il Pakistan, proprio ora che Islambadab avrebbe acquisito nuove superiorità militari grazie ai soldi americani destinati alla lotta agli estremisti islamici. In una intervista ad Outlook di questa settimana K.Santhanam svuota il sacco e in maniera abbastanza brutale dice “che la bomba da 45 kilotoni è una evidente bugia, una BUGIA a caratteri cubitali”. Una delle prove è che non si è formato un cratere (quello che volevo vedere io…). A quanto pare, la confessione non è stata una sorpresa, molti lo sapevano, ma diciamo non avevano mai “osato” dirlo che era una bufala. L’unica cosa non chiara è perché Santhanam abbia parlato solo ora. Forse vogliono rifare il test? Qualcuno vuole screditare l’arsenale militare indiano? Purtroppo l’intervistatore non glielo ha chiesto.
Negli ultimi tempi c’è molta fibrillazione nel mondo della scienza. A luglio è stato varato il primo sottomarino nucleare made in India , che di “nucleare” ha però solo il nome, visto che il reattore nucleare da usare come propulsione deve ancora essere progettato e costruito. Pare che la moglie del premier Singh, chiamata a fare da madrina al varo, abbia varato un cassone di metallo praticamente senza motore. Ma tutti i media, passivamente, hanno celebrato l’arrivo dell’India nel club delle potenze dotate di sottomarini nucleari.
Poi c’è stata la sonda lunare Chandrayan I che il 31 agosto ha perso il contatto con la base di Bangalore. E’ durata quasi un anno: secondo gli esperti è già tanto e comunque prova le capacità dell’India ad andare nello spazio a low cost. Mentre infuriavano le polemiche sul fallimento della prima missione lunare, ecco piombare dal cielo la notizia del ritrovamento di molecole di acqua grazie a uno strumento di misurazione piazzato dalla Nasa. Pare che setacciando una tonnellata di suolo lunare si ottenga un bicchiere d’acqua. Intanto nel deserto del Rajasthan muoiono di sete.
Così scriveva Marx nel 1853
“Hindostan is an Italy of Asiatic dimensions, the Himalayas for the Alps, the Plains of Bengal for the Plains of Lombardy, the Deccan for the Apennines, and the Isle of Ceylon for the Island of Sicily. The same rich variety in the products of the soil, and the same dismemberment in the political configuration.
Karl Marx, New York Daily Tribune, June 25, 1853.
"L'India è un'Italia di dimensioni asiatiche, l'Himalaya sono le Alpi, la pianura del Bengala è la pianura lombarda, il Deccan sono gli Apennini e l'isola di Ceylon è la Sicilia. C'è la stessa varietà di prodotti del suolo e la stessa frammentazione politica".
Karl Marx, New York Daily Tribune, June 25, 1853.
"L'India è un'Italia di dimensioni asiatiche, l'Himalaya sono le Alpi, la pianura del Bengala è la pianura lombarda, il Deccan sono gli Apennini e l'isola di Ceylon è la Sicilia. C'è la stessa varietà di prodotti del suolo e la stessa frammentazione politica".
Viva i Bhil, l’India ha fermato la cafonata della Perego
Non ho ben capito quale è stato il motivo, ma pare che l’India non abbia dato il visto ai partecipanti del reality show di Paola Perego che doveva andare in onda su Canale 5. Questa nuova idiozia televisiva, che però fa audience e quindi soldi, si chiama “la Tribu Missione India” e in teoria dovrebbe svolgersi in un villaggio della comunità tribale dei Bhil, probabilmente in Gujarat, dove ci sono molte comunità nomadi, diciamo, molto “folkloristiche”. Non sono però riuscita a sapere la località esatta, a quanto pare la cosa è segreta. I partecipanti sono veramente assortiti, c’è un principe sabaudo, un calciatore, un giornalista, alcune attrici che si devono riciclare, altre in cerca di notorietà, una ex miss Italia e una modella marocchina. Ovviamente tutte bellissime, giovani, sexy e spregiudicate.
Ho letto che il gioco consisteva nel vivere a contatto con la “tribù” e imitare il loro modo di vita. Pare che i Bhil usino ancora arco e frecce, non so se per impressionare i turisti. Portano abiti coloratissimi e pesanti ornamenti, un po’ come molte comunità in Gujarat e nel vicino Rajasthan. Immagino quindi che la “figata” ideata da Mediaset consista nell'obbligare i concorrenti a usare arco e frecce, portare gli otri d’acqua sulla testa, mungere le bufale e, perché no, magari anche raccogliere gli escrementi bovini per strada e impastarli con le mani per fare le famose “formelle” da usare per il fornello. Chissà se la conduttrice Perego, un'altra bellona, ci ha pensato anche a questo particolare. La prova della raccolta letame, raccontata dall’inviato Brosio, impennerebbe l’audience. Purtroppo non ho mai visto un reality (nel mio quartiere non ricevo canali televisivi italiani, neppure Rai International - e mi dispiace perché credo che qualcosa di buono ci sarà pure) e non ne capisco nulla di queste cose. Ma trovo la "trovata" della tribù indiana veramente di cattivo gusto, oltre che non è per nulla “politicaly correct” nei confronti degli ignari Bhil. Mi complimento quindi con le autorità indiane che hanno opposto resistenza a questa ennesima cafonata italiana.
PS Nel frattempo ho letto che i preparativi della trasmissione abortita sono costati dai 2 ai 3 milioni di euro. Spero che almeno qualche briciola sia rimasta ai Bhil...
Ho letto che il gioco consisteva nel vivere a contatto con la “tribù” e imitare il loro modo di vita. Pare che i Bhil usino ancora arco e frecce, non so se per impressionare i turisti. Portano abiti coloratissimi e pesanti ornamenti, un po’ come molte comunità in Gujarat e nel vicino Rajasthan. Immagino quindi che la “figata” ideata da Mediaset consista nell'obbligare i concorrenti a usare arco e frecce, portare gli otri d’acqua sulla testa, mungere le bufale e, perché no, magari anche raccogliere gli escrementi bovini per strada e impastarli con le mani per fare le famose “formelle” da usare per il fornello. Chissà se la conduttrice Perego, un'altra bellona, ci ha pensato anche a questo particolare. La prova della raccolta letame, raccontata dall’inviato Brosio, impennerebbe l’audience. Purtroppo non ho mai visto un reality (nel mio quartiere non ricevo canali televisivi italiani, neppure Rai International - e mi dispiace perché credo che qualcosa di buono ci sarà pure) e non ne capisco nulla di queste cose. Ma trovo la "trovata" della tribù indiana veramente di cattivo gusto, oltre che non è per nulla “politicaly correct” nei confronti degli ignari Bhil. Mi complimento quindi con le autorità indiane che hanno opposto resistenza a questa ennesima cafonata italiana.
PS Nel frattempo ho letto che i preparativi della trasmissione abortita sono costati dai 2 ai 3 milioni di euro. Spero che almeno qualche briciola sia rimasta ai Bhil...
Emigrati in India, cornuti e mazziati
Mentre cercavo una cosa sul sito internet del consolato generale italiano a Gerusalemme ho scoperto l’esistenza di una “IT-Card”, una carta sconti per gli emigrati che vogliono andare in vacanza in Italia. Lo chiamano “turismo di ritorno”. Era stata introdotta dal ministero degli esteri ben due anni fa e bisogna richiederla ai consolati di appartenenza. Ma io non ne sapevo nulla. Non solo. Da un minisondaggio tra connazionali ho poi scoperto che neppure loro ne sapevano nulla e trovavano scandaloso che non fossimo stati informati. Ho conservato la fantastica mail di risposta del mio amico siciliano che sta a Jaipur: “Io singeramente non ne sapevo un cazzo, scusami se sono scurrile”. A parte lo smacco professionale per la mia ignoranza come giornalista, ci sono rimasta veramente male. Ma come? Per una volta che si fa qualcosa per gli sfigati di italiani all’estero, manco la fanno sapere! Qualcuno - evidentemente di quelli che non hanno bisogno di sconti quando vanno in Italia - mi ha detto che era una “manovra elettorale”. Altri mi hanno detto che serve a ben poco, c’è una convenzione con Gardaland, gli Autogrill, Hertz… ma anche le ferrovie (qui ci sono le informazioni). Se ho ben capito c’è il 20% di sconto sui treni. “Meglio che un calcio nelle palle” avrebbe detto mio nonno in dialetto piemontese sfoderando la pragmatica saggezza sabauda. Quando sono andata in Italia a Ferragosto come “turista di ritorno” ho speso una fortuna tra Freccia Rossa e eurocity. Mi avrebbe fatto comodo uno sconticino. “Ma tanto dal 31 dicembre la convenzione con TreniItalia scade” mi hanno informata dal consolato di Delhi forse per consolarmi (c’è pure il gioco di parole). Veramente, cornuta e mazziata.
Vacanze Italiane
Dopo un anno e mezzo di assenza sono tornata in Italia per la settimana di Ferragosto. Questa è la cronistoria dello shock culturale.
12 agosto – Malpensa. Arrivo tra un nugolo di neo spose indiane con i braccialetti tintinnanti e rattrappiti contadini dell’Haryana in babbucce dorate. Al ritiro dei bagagli ci sono cassette pieni di manghi profumati. E’ quasi mezzogiorno. L’aeroporto, ormai orfano di Alitalia, è deserto dentro e fuori. Un sole lancinante e folate di aria calda mi accolgono. Il cielo è come quello dei Tropici. Ma sono arrivata in Padania o a Mikonos?
13 agosto - Milano. Come per magia non c’è neppure un graffito sui muri del centro di Milano. Effetto Moratti, mi dicono. In piazza Duomo ci sono delle biciclette gialle da affittare, ma per pagare bisogna rivolgersi all’ATM. Cerco un bancomat, forse si pagherà con la carta. Una coppia di turisti francesi poi mi spiega che ATM sta per Azienda Trasporti Milano e non è una “atm machine”. Dimentico la figuraccia e prendo un tram, quelli senza aria condizionata, per andare verso viale Certosa. Non ricordo nulla di Milano, ma mi ritrovo per caso davanti a un mega centro commerciale nuovo di zecca. Decido di comprarmi un telefonino. Scoprirò dopo qualche giorno che i cellulari sono l’unico bene che va come il pane nonostante la crisi e che le vendite sono triplicate. Ho fatto quindi la mia parte.
14 agosto - Il telefonino è un Nokia 5800 “XpressMusic”, una delle ultime meraviglie tecnologiche, anche se le batterie durano nemmeno un’ora…. Il dramma è l’attivazione della scheda TIM che mi è stata data in omaggio. Per uno che piomba in Italia, diciamo dopo cinque o sei anni e che si è perso tutte le puntate precedenti, è veramente come arrivare dalla luna. A forza di pubblicità, pare che anche gli ultranovantenni nelle case di riposo sappiano cosa è il Wap Tim. Purtroppo io no. Al 119 della Tim parlano troppo veloce e con termini a me incomprensibili. “Guardi non capisco nulla di quello che mi dice, io vorrei solo navigare in internet dal mio telefono” ho detto ormai disperata a una gentile signorina che senza prendere fiato replica: “allora le attivo la promozione Alice-tim-wik-diecigigabait-solo-due euro-alla settimana-ma-se-non-la vuole più-lo deve-dire-perché-vengono-prelevate-automaticamente”. Mi ricordo che nei call center indiani si insegna a come velocizzare al massimo le telefonate con il cliente. Beh, anche i call center Tim (ammesso che siano in Italia e non in Romania) non c’è poi male.
15 Agosto – Ceres, 40 km da Torino, valle di Lanzo. Il fiume Stura è di un azzurro color stoviglia, mi viene da dire citando il compaesano Gozzano. Mi viene perfino voglia di buttarmi dentro, ma le acque che arrivano dal ghiacciaio non-mi-ricordo-quale, sono ancora ancora più fredde di quelle del Gange. Ma sono ottime per le trote. Sono nel buen retiro estivo dei torinesi. Quintessenza della piemontesità unita alla bonaria rozzezza dei montanari che scrivono “vendesi tomma”. Qui non sanno manco cosa sia l’internet. Non c’è bisogno di scappare sull’Himalaya, basta mezzora a nord di Torino per uscire dal mondo. A Ferragosto, la festa dell’Assunta, fanno un falò enorme sulla piazza del Paese davanti alla bella chiesa barocca color panna e nocciola. Bruciano una catasta di legno, mentre due coppie di giovani, i “priori”, ballano un valzer in tondo al suono della banda del paese. Se le fiamme arrivano a bruciare dei nastri colorati issati sopra un altissimo tronco e intrecciati di rami di ginepro, è destino che si sposino. E dopo ci stupiamo che in India si accoppiano a seconda dello zodiaco! Dopo il falò, mentre mi bevevo un bianchetto nel bar della piazza, vengo approcciata da un romeno che mi scambia per un’immigrata straniera. “Non ti ho mai vista qui, anche tu vieni da fuori, io sono solo, perché non facciamo due chiacchiere?”.
16 Agosto – Bracchiello (tre km da Ceres). I miei genitori invitano un po’ di amici per l’aperitivo nella loro baita ristrutturata. Si prende l’Aperol con il ghiaccio e una fetta di limone. Dopo mezz’ora scappo in bagno dove ci starò per tutta la giornata. A salvarmi sono delle pillole al carbone (non scherzo, era carbone puro, macchiava anche di nero) che il medico aveva consigliato a mio padre quando era venuto a New Delhi per evitare il famigerato “delhi belly”, il mal di pancia che colpisce quasi tutti gli stranieri appena arrivati in India.
17 Agosto – Da quando sono arrivata non ho ancora visto una nuvola. C’è un cielo da cartolina e alle sette di sera il sole cuoce ancora le rocce. Sulla montagna di fronte ci sono delle chiazze bianche. Sono nevai superstiti. Mi dicono che nessuno in paese si ricorda delle nevicate così abbondanti come quelle dello scorso inverno. Metri e metri di neve. Parte dei boschi sono stati distrutti dalle slavine. Decido di andare a toccare la neve a Pian della Mussa, in cima alla vallata dove nasce la Stura. E’ stranissimo, di solito a Ferragosto, qui ci sono i prati in fiore. Invece c’era un nevaio grande come due o tre campi da calcio che si stava sciogliendo sotto il sole torrido. Un tizio, in costume e con i bastoncini da sci, era nel bel mezzo della distesa bianca a prendere il sole.
18 Agosto – Mi è venuta voglia di andare al mare. Da Milano a Bologna prendo la Freccia Rossa, un’ora di viaggio senza fermate per la modica somma di 40 euro. E’ la mia prima volta con l’alta velocità italiana. Nei braccioli dei sedili c’è anche la presa elettrica per caricare il telefonino...visto che le batterie durano cosi poco. Mi chiedo però chi se lo può permettere e soprattutto che fine hanno fatto i treni per i pendolari.
19 Agosto – Milano Marittima – Non pensavo ci fosse ancora la prova del look come negli Anni Ottanta della Milano da bere. Nel buen retiro estivo dei milanesi c’è il solito via vai di bonazze, calciatori e lei-non-sa-chi-sono-io. Purtroppo io ho scoperto la costa romagnola solo tardi quando ormai ero espatriata. Come tutti i piemontesi si andava piuttosto nella sobria e molto meno godereccia Liguria. Mi dicono che a Milano Marittima c’è il famoso Pineta Club Discoteca, locale per modaioli. Ci arrivo all’una di notte facendomi largo tra la folla. Ci sono dei locali, tipo birrerie che alla sera si trasformano. Le cubiste ballano sui tavoli, appese ai lampioni. Va di moda indossare dei Borsalini bianchi venduti dai vucumprà. L’atmosfera è giusta, ma manca qualcosa, non lo so. Mi sembra tutto un po’ finto. Davanti al Pineta ci sono degli armadi con due gambe e occhiali scuri. Basta un cenno del sopracciglio per fulminare con lo sguardo il mio accompagnatore e bloccarlo ancor prima che pensasse di mettersi in fila per l’ingresso. Ho visto che l’occhio del bodyguard si è abbassato sul suo marsupio. Bocciato. Sarà bocciato anche la sera dopo per il camiciotto a scacchi. Via libera invece per me che indosso una t-shirt con il faccione blu di Shiva e una borsa di cotone giallo con un OM costata 30 rupie (mezzo euro) comprata al mercatino di Rishikesh. Trendy, molto trendy.
Sono spariti i fricchettoni da Rishikesh?
Approfittando del monsone poco abbondante di quest’anno, sono partita da New Delhi con l’intenzione di raggiungere le sorgenti del Gange. Ma arrivata in scooter alle prime alture himalayane a Rishikesh ho dovuto rinunciare a causa della pioggia. Le montagne erano inghiottite da nubi minacciose. Dal Gange uscivano vapori che mi ricordavano le illustrazioni dello Stige quando studiavo la Divina Commedia. Tra l’altro, un po’ di anni fa per caso ero andata a una conferenza di uno studioso indiano che era convinto che Dante si fosse ispirato al Gange. Potrebbe essere vero.
Prima di Rishikesh mi sono fermata a Haridwar, la città sacra più importante in India dopo Benares, penso. Mentre Benares è la città dei morti, Haridwar è la città dei vivi. In pochi posti ho visto un’umanità così gioiosa usare il fiume come un parco giochi naturale. C’era chi si tuffava con piroette, chi si lasciava trascinare dalla corrente, altri sguazzavano felici. Il fiume è ancora pulito qui, anzi pare abbia anche delle proprietà terapeutiche. Le sue acque non imputridiscono e anche con la calura sono sempre gelide. Ho fatto il bagno anch’io, in mutande e reggiseno, nel “ghat” coperto riservato alle donne. Ma mi sono presa paura quando qualcosa - penso un grosso pesce - mi ha sfiorato i piedi. Il prossimo anno ad Haridwar si tiene il Kumba Mela con milioni di pellegrini.
A una ventina di chilometri di distanza Rishikesh, capitale dello yoga e meditazione, resa famosa nel 1968 dai Beatles che ci passarono tre mesi, è piena di stranieri. Stranamente non sono i soliti fricchettoni. Ho visto anche molti italiani passeggiare lungo le rive del fiume tra l’odore di letame delle vacche misto all’incenso delle puja. Che la crisi abbia orientato la gente verso vacanze alternative? A Laxmanjula, ho trovato una splendida stanza con balcone e vista sul Gange a pochi euro. Rishikesh rimane e penso rimarrà sempre affascinante per gli occidentali in cerca di misticismo orientale. Sono andata a un corso di Hata Yoga (100 rupie) in uno dei tanti ashram. Lo yogi era un ragazzo carino con i capelli oliati, inglese perfetto e tunica bianca. Tiene due corsi al giorno, al mattino alle sette e al pomeriggio alle 4.30. Sono sempre pieni di stranieri. Prima spiega le posizioni, poi le mostra e poi chiede di eseguirle. Il mio vicino, un gigante scandinavo, sbuffava come un treno mentre cercava disperatamente di incrociare le gambe nella posizione del loto. Era la prima volta che facevo yoga. Sono riuscita a fare quasi tutto (lo yogy mi ha detto che ho “flessibilità”), ma la posizione del “dead body”, usata per il rilassamento, mi sembrava decisamente macabra. Alla fine abbiano recitato l’om shanti shanti shanti, ma mi veniva da ridere. Mi ricordava il film commedia The Guru dove un indiano si improvvisa come santone a Manhattan…
PAKISTAN, ma chi sono i talebani?
Lo ammetto. Questo mese in Pakistan, è stato logorante. Sono stata a Lahore, Islamabad-Rawalpindi, Peshawar, Baltistan e valle di Hunza. Quando ho attraversato il posto di frontiera di Wagah ho tirato un sospiro di sollievo. La maggior parte dei viaggiatori che ho incontrato sulla mia strada hanno invece provato la stessa gioia a mettere piede in Pakistan. Come ho già scritto la difficoltà per me era di essere donna e di girare da sola, con lo sguardo curioso e la sfrontatezza di fare le cose che fanno gli uomini. Probabilmente non era molto diverso l’ambiente in Italia all’epoca di mia madre. Ne ho parlato con molti pachistani che mi hanno detto semplicemente che è la loro cultura. E’ però difficile pensare che nel paese di Benazir Bhutto ci sia un tale oscurantismo verso le donne. Temo piuttosto che sia una conseguenza di un’islamizzazione o talebanizzazione che sta dilagando dalle regioni nord occidentali abitate dai pashtun verso le metropoli tradizionalmente più laiche. Dopo lunga insistenza alcune ragazze a Skardu mi hanno detto che “non andavano al bazar perché si sentivano osservate”. Lo stato di allerta, con i posti di blocco, le perquisizioni, le squadre antiterrorismo, certo non favoriscono le passeggiate o le vasche sotto i portici. A cento chilometri da Islamabad, nella valle di Swat, i talebani hanno distrutto decine di scuole femminili, cacciato i barbieri e chiuso i negozi di dvd di Bollywood che qui sono molto popolari. E non è così sicuro che siano stati eliminati fisicamente. Non bisogna dimenticare che il Pakistan, come aveva detto il presidente Zardari, sta lottando per la “sua sopravvivenza” e quindi anche per una società meno misogina. Una delle mie domande più frequenti agli intellettuali, politici e militari che ho incontrato era “chi sono i talebani?”. Non sono un movimento guerrigliero, come le Tigri Tamil o i maoisti nepalesi, non hanno un’uniforme o un governo locale. Certo sono armati, ma nella Regione di Frontiera Nord Occidentale le armi sono legali, non ci vuole la licenza, anzi le fabbricano perfino. E’ un po’ come nel Far West con tanti cattivi, le carovane (della Nato) da assaltare e la corsa all’oro (traffico di eroina). Le risposte al mio quesito sono state diverse. Alcuni mi hanno detto che sono gli ex mujaheddin che il Pakistan e gli Stati Uniti hanno addestrato contro l’Unione Sovietica in Afghanistan, altri mi hanno detto che sono dei signori della guerra o capimafia in lotta per il controllo del territorio e di traffici di droga. Moltissimi ritengono che Baitullah Mehsud, a capo della tribù dei Mehsud in Waziristan e super ricercato sia pagato e protetto dalla Cia. Il ministro degli interni Rehman Malik mi ha detto invece che “sono stranieri, per il 90 per cento sono afghani” dimenticandosi però che il confine tra Afghanistan e Pakistan non esiste nemmeno.
Non ho avuto occasione di incontrare i talebani, o forse ne ho incontrati, ma non lo sapevo. Quelli di Mehsud hanno il turbante nero, dicono. Il mio collega Taher che è in contatto con i portavoce e mi voleva portare da qualcuno di loro nel distretto di Dir. Gli ho detto che non mi fidavo di lui perché mi poteva vendere. C’è rimasto male. Ci sono stati degli stranieri sequestrati (non si sa bene da chi) su cui esiste un silenzio stampa. Il poliziotto che coordina la sicurezza del ministro Malik (il ministero degli interni è pieno di militari…), Mohammed Farhan Zahid mi ha detto che gli unici posti sicuri dove sarei dovuta stare erano il Serena Hotel o il Marriot (saltato in aria lo scorso settembre!). “Non devi uscire dall’hotel” mi ha intimato in tono per nulla scherzoso. Chiaramente non gli ho detto che stavo a Saddar Market, zona militare di Rawalpindi e che in un mese ho scorrazzato nei bassifondi di mezzo Pakistan…ma tanto penso lo sapesse, se davvero i servizi segreti pachistani sono potenti, come dicono.
PAKISTAN – La corriera Natco e il Daewoo bus
Il volo da Skardu a Islamabad – ammesso che uno riesca a prenderlo perché non c’è mai posto – dura 45 minuti. L’autobus, Natco VIP express air condition, invece ci mette 30 ore e come succede spesso, di VIP e aria condizionata c’è solo la scritta sulla fiancata. Natco sta per Northern Areas Transport Corporation, sono i più affidabili sulla Karakoram Highway, dicono. E’ già tanto che abbia il sedile reclinabile. Il vantaggio però è che a differenza dell’India, qui in Pakistan i prezzi sono fissi, quindi non si perde tempo a negoziare. In quanto donna e single io ho avuto il privilegio di avere il posto singolo di fianco all’autista. Che è più comodo perché si allungano le gambe, ma non altrettanto tranquillo perché è vicino alla porta. Dopo un’ora il “Vip Express” si trasforma infatti in un bus locale, carica chiunque trovi, qualsiasi tipo di mercanzia, polli e capre compresi, militari, pastori, venditori ambulanti e amici dell’autista. Più quello che c’è sul tetto e che non vedo. A differenza dell’andata verso Skardu, in cui ero incassata nei sedili posteriori di un pulmino, ho potuto ammirare il canyon dell’Indo che si snoda per chilometri sormontato da varietà incredibile di rocce e sedimenti alluvionali. Guardando giù nel dirupo dalla parte del mio finestrino vedevo correre le sue acque sabbiose cercando di capire se andavano più veloci del bus. L’asfalto è irregolare e per evitare le buche l’autista (in realtà erano in due che si alternavano ogni 6 o 7 ore) era costretto a un continuo zigzag. Nonostante il continuo sbandare a destra e sinistra sono riuscita a leggere per intero un libro di Kiran Desai, “Gli Eredi della Sconfitta”, vincitore del Booker Prize, che parla di altre vette e vallate, in Sikkim, Himalaya orientale, all’ombra del Kanchenjunga, la terza montagna più alta del mondo. Un libro amaro, che non lascia vie di uscite, nessun happy end. Quando sono arrivata a Islamabad ero stravolta più dalla storia che dalle 30 ore di sobbalzi, per di più a digiuno. Siccome abbiamo avuto un guaio con lo sterzo durato due o tre ore e siamo stati fermi per diverse ore ai posti di blocco dei militari, gli autisti hanno infatti deciso di saltare le soste per mangiare.
Tre giorni dopo però i trasporti pubblici pachistani si sono completamente riscattati. Il viaggio di 4 ore e mezzo da Islamabad a Lahore è stato uno dei più belli, in assoluto, per me. Si tratta dei noti “Daewoo bus”, che molti mi avevano decantato come i migliori in Pakistan. Verissimo, anzi di più, sembra di prendere l’aereo. A bordo c’è una hostess che serve da bere, snack e bevande calde. Per sicurezza, i passeggeri vengono filmati uno per uno con una videocamera da un tizio che sale quando siamo al casello dell’autostrada. In una busta di plastica trovi delle cuffiette che attacchi al bracciolo per sentire musica o un film sullo schermo comune. Sembra di viaggiare sui cuscinetti d’aria, puoi metterti a giocare a Mikado sul tavolino. E poi è silenzioso, si sente il chiacchiericcio sommesso dei passeggeri, qualcuno al telefono, altri che scrivono sul portatile, pachistani ricchi, immagino, disposti a sborsare per il biglietto ben 450 rupie (neppure 10 euro), il doppio di un bus di linea che non prendono l’autostrada. Quando la hostess fa il primo annuncio in cui augura buon viaggio, la sua voce esce in stereofonia con l’eco, mi sembra una voce celestiale…quasi soprannaturale. Forse il bus Natco da Skardu è finito in un burrone mentre leggevo e ora sono in viaggio verso l’aldilà?
PAKISTAN- Peshawar, tra trafficoni e trafficanti
Ci sono cittá che pur essendo deturpate da incuria, colate di cemento e sovraffollamento conservano nel tempo il loro fascino. Una di queste é Peshawar, piú afghana che pachistana, da secoli crocevia di contrabbandieri, spioni, banditi e rifugiati. Oggi é una delle cittá piú pericolose in Pakistan per attentati, bombe e rapimenti. Peshawar é la retrovia delle guerra americana in Afghanistan e ora é diventata l'avamposto della guerra pachistana contro i talebani di Swat e del Waziristan. Ma é da secoli al centro di manovre e intrighi internazionali. Ed é cosciente di questo suo ruolo. I pashtun sono degli incredibili trafficoni. Si potrebbero paragonare ai napoletani per la creativitá e l'arte di arrangiarsi. Nel bazar della vecchia Peshawar si vedono ancora personaggi che sembrano usciti dalle pagine del Kim di Kipling. Dal guaritore che vende preparati contro l'impotenza a base di ramarro, con tanto di lucertolone in bella mostra tra i flaconcini, ai venditori di té che fanno bollire l'acqua in cisterne di ottone che sembrano pezzi da museo fino a quelli che riciclano pneumatici lisci e ne fanno delle taniche per l'acqua.
Un po' fuori Peshawar vicino alla tomba del santo-poeta pashtun Rahman Baba (dove alcuni fumatori di hashish mi hanno recitato qualche sonetto...) c'é un "polo" del riciclaggio di camion e bus. Comprano rottami di mezzi pesanti da tutto il mondo e li ricostruiscono pezzo dopo pezzo. La decorazione é stupefacente e anche costosissima. Spesso sono i bambini a incollare le striscioline colorate di carta fosforescente componendo diverse scritte del Corano, ghirlande di fiori, pavoni e pappagalli e intricati disegni e ghirigori. Alcuni cassoni sono dipinti con figure di cascate, astronavi, cavalli o uomini dallo sguardo truculento con coltelli insanguinati tra i denti . Poi ci attaccano girandole, bandierine, piume di pavone, fiori finti e una cortina di campanelli al paraurti. Gli interni anche sono dei salotti rococó. Mai visto in vita mia una pacchianeria piú folle di quella dei bus e camion di Peshawar.
A mostrarmi i segreti della cittá é un personaggio bizzarro, Prince Mahir Ullah Khan, che dice di provenire dalla famiglia reale di Chitral e che incontro all'hotel Rose, nel caotico Khyber Bazar dove ho deciso di alloggiare perché è vicino al quartiere di Qissa Kawani (la strada dei cantastorie). Fa la guida turistica, sul suo "book" ci sono centinaia di commenti di stranieri entusiasti per le visite alla fabbrica d'armi di Darra Adam Khel (ora chiusa) e al mitico Khyber Pass (anche quello chiuso agli stranieri e comunque poco raccomandabile). Prince é un vero trafficone pasthun, ma con un grande cuore. Gestisce una ong che offre servizi legali gratuiti alle famiglie povere e che usa per facilitare il rilascio di visti e permessi a turisti stranieri. Ma ha una miriade di altre attivitá e "alte conoscenze" nella polizia e nel ministero del turismo della North West Frontier Province. Si sta impegnando - cosa veramente lodevole - per il restauro delle porte d'ingresso alla cinta muraria di Peshawar e di alcuni palazzi signorili ricchi di stucchi e di intarsi lignei, ma ora in completo stato di fatiscenza. Nel bel giardino del Ghor Katri, che era il caravanserraglio di Peshawar, una delle poche aree verdi, c'é un tempio indu e uno scavo archeologico. Prince ha un ufficio qui pieno di cimeli, di tipici strumenti musicali che lui suona e di vecchie foto di lui con diversi personaggi politici. Rimango letteralmente esterrefatta quando mi mostra in un vicino garage un mezzo dei pompieri dell'epoca coloniale con tanto di campana. Un pezzo che farebbe impazzire i collezionisti. "Voglio che rimanga qui a Peshawar, la esporremmo qui" mi dice mostrandomi il porticato dell'antico caravanserraglio usato come guarnigione dagli inglesi e che ancora oggi ospita un ufficio dei vigili del fuoco. "Sto anche cercando di creare un museo etnografico" aggiunge mentre mi invita a posare per una foto davanti alla fantastica autopompa degli Anni 20, modello Merryweather, London.
Ps Se per caso avete bisogno di Prince Mahir Ullak Khan lo trovate ai numero 0092 0301 8814007 o 0300 5860071
PAKISTAN, Skardu, ma dove sono le donne e il K2?
Dopo un'ora a Skardu avevo giá voglia di scappare. Mi sembra che da queste parti non abbiano mai visto una donna per strada in vita loro. Nel bazar dove si trova la mia guesthouse ci sono negozi di idraulica e di ferramenta, ma anche qualcuno che vende tessuti e bigiotteria. Ma non si vede mai nessuna donna. Al massimo stanno in macchina mentre l'uomo compra da bere o gelati per i bambini. Ci sono solo uomini che ciondolano sui marciapiedi o accovacciati mentre fumano o bevono il té. Alcuni si tengono per mano. E si grattano ripetutamente i genitali, abitudine che condividono con gli indiani. Quando passi ti scrutano come un marziano. Alcuni guardano con curiositá, altri con uno sguardo davvero lurido e alcuni con gli occhi pieni di disprezzo. Qualcuno sputa. Penso che Skardu, insieme a Kargil - nel Baltistan "indiano", oltre il fronte di guerra - abbia la palma di posto piú misogino. Almeno per quanto riguarda questa parte di Asia che in sette anni ho cominciato a conoscere un po'. Eppure qui di turisti ne vedono. E' la base di di partenza per le spedizioni al K2 e per il famoso trekking sul mitico ghiacciao del Baltoro. A parte un taciturno e scontroso turista svedese e una coppia di cinesi che stanno sempre in camera, penso di essere l'unica straniera, almeno l'unica che cammina per strada. Ci saranno anche altri, probabilmente alpinisti, ma per loro Skardu é solo una tappa dove salire su una jeep per uno di quei trekking-tutto-organizzato, compreso l'asse del cesso come ho visto una volta su un mulo di una carovana in Ladakh. Dalla quantitá di costosissimi fuoristrada si capisce che da queste parti circola un turismo ricco. Non ho neppure capito dove si va per scorgere il K2. Penso sia una giornata di auto e poi tre giorni di trekking solo per vedere la vetta da lontano...Poi inizia quello che chiamano "l'avvicinamento".
Skardu sorge in un'immensa spianata formata dal fiume Indo, non a caso c'é perfino l'aeroporto e diverse basi militari, da qui vanno sul ghiacciaio di Siachen dove sono ancora schierati gli eserciti. Le montagne si vedono solo da lontano, quasi come a Torino con le Alpi. Il paese non ha nulla di bello. Non c'e internet (c'é un guasto nel cavo a causa di una frana, mi hanno detto), ma in compenso c'é elettricitá 24 ore su 24 (per via delle basi militari). E' l'unico posto che conosco dove vendono gli assorbenti sciolti nelle farmacie "Quanti ne vuole?" mi hanno chiesto rovistando da una confezione di marca cinese.
Ho notato la gente in strada non sa nulla di alpinismo o trekking. Se non quelli che sono legati alle spedizioni per le quali sono necessari costosi permessi. Il funzionario che mi ha rinnovato un visto (un mese, non credevo ai miei occhi), in un ufficio arredato in abete chiaro come una baita alpina, mi ha fatto giurare che non sarei andata a scalare. "Ma veramente ho l'aria di una che fa alpinismo?" gli ho chiesto io sotto la coltre della dupatta e mostrando i sandali di plastica che ora indosso con calzini neri, perché ho le dita dei piedi rovinate.
Il proprietario del Baltistan Tourism Cottage, ex Kashmiri hotel, Mohammed Iqbal, ha cercato invano di convincermi che Skardu é una cittá "moderna" e che alcuni posti sono pieni di donne che fanno shopping. "Dimmi dove, che ci vado, perché ho bisogno di un reggiseno" gli ho detto in tono provocatorio. Mi ha indicato un "centro commerciale' in Saptara Road, "frequentato solo da donne". Ci sono andata. In un seminterrato pieno di vestiti da festa e di cose per bambini c'erano due commesse gentili. Una parlava inglese. Ma non c'erano donne né dentro né fuori. Avevano solo due tipi di reggiseno, uno classico con le coppe e l'altro piú sportivo a fascia. Ho comprato quest'ultimo. Di altre donne neppure l'ombra, a parte un gruppo di studentesse e una mendicante con un bambino in braccio. Passando davanti a file di uomini con gli occhi fuori dalle orbite, mi veniva in mente una famosa foto dell'Italia anni Sessanta, penso, con degli uomini seduti a un bar tutti girati a guardare una ragazza in gonnellina...oppure certi film sulla Sicilia nel dopo guerra... Anche qui portano la coppola e il mantello ...Non penso che questa misogenia sia una questione religiosa. Qui sono sciiti, non sono i sunniti deobandi della Regione di frontiera Nord Occidentale o i talebani di Kabul. "Secondo me é perché vai in giro vestita da pachistana, prova a essere te stessa e a far finta di nulla se ti guardano" mi ha suggerito Mohammed che mi ha anche raccontato di coreane che andavano in giro con i pantaloncini e una ventenne norvegese che "di cui si parla ancora nel baazar". "Mai visto una bionda del genere, fianchi e seno possenti come le nostre donne...andava in giro in jeans..." aggiunge mentre disegna con le mani la larghezza del sedere.
PAKISTAN/Skardu, sulle orme del Duca degli Abruzzi
Ho deciso di lasciare la Karakoram Highway per andare in Baltistan, a sette o otto ore di bus a est, seguendo la valle dell'Indo che poi continua oltre il confine militarizzato con l'India. Il Baltistan é l'equivalente del Ladakh indiano, ma senza i gompa, le bandierine colorate e le preghiere incise sulle pietre. Insomma decisamente piú monotono e meno affascinante. Si parla il balti che non a caso é simile al tiberano. Gli unici colori lungo la strada infinita tra Gilgit e Skardu sono i camion, autentiche opere d'arte che di notte sembrano dei luna park e le albicocche stese sulle rocce ad essicare. Stranamente ho anche visto pochi convogli militari. Ma forse sono impegnati sul fronte afghano. La prima cosa che ho fatto appena arrivata a Skardu é di andare al Museo degli Italiani, un tendone allestito nel giardino dell'hotel governativo PTDC, che racconta le imprese sul K2, la seconda vetta piú alta, definita la "montagna degli italiani" che da qui non si vede, ma da qui partono le spedizioni. Non conosco il perché di questa connessione che risale agli inizi del Novecento con la spedizione del Duca degli Abruzzi e continua con Ardito Desio durante il ventennio fascista, quando qui c'erano gli inglesi. La mostra realizzata nel 2004 da Agostino Da Polenza, in occasione del cinquantenario dell'ascensione, ha delle foto stupende. Peccato peró che l'ho trovata chiusa e solo dopo mia insistenza (sono andata dal manager dell'hotel) sono riuscita a entrare. Gli ospiti dell'hotel non sapevano neppure che ci fosse.
La spedizione del 1909 del Duca degli Abruzzi, Luigi Amedeo di Savoia, si era imbarcata a Marsiglia. Era composta ovviamente da piemontesi, il marchese Federico Negrotto, il "cavaliere" Vittorio Sella, il "dottore" Filippo De Filippi, il fotografo e poi "tre guide di Courmayeur e da un aiutante fotografo". Doveva essere un'allegra brigata! C'é una foto fantastica di principe e marchese seduti davanti alla tenda insieme alle autoritá britanniche a Srinagar, che ora si trova nel Kashmir indiano. In effetti per andare a Skardu si sale da Srinagar, guardando la mappa. Sono rimasta affascinata dalla descrizione che il Duca fará un anno dopo, esattamente il 16 febbraio 1910, a una conferenza del Cai a Torino:
"Costeggiamo declivi precipitosi di detriti alluvionali, che minacciano rovina, ed incontriamo i ben noti torrenti di fango, che fortunatamente data la stagione, sono asciutti e perció non difficili da attraversare; ma certamente durante l'epoca delle piogge essi possono costituire un ostacolo serio e pericoloso. A Pakoro siamo costretti a passare per la prima volta un ponte di corde di liane. E' un passaggio che fa perdere molto tempo, senza tuttavia recare alcuna emozione a chi non soffra di vertigini; puól bensí diventae difficili durante forti raffiche di vento, che potrebbero imprimere al ponte movimenti di oscillazione inquientante".
Ma ancora di piú mi ha colpito la descrizione del K2:
"Nella sera limpidissima rimanemmo a lungo a contemplare il K2. Mentre la notte scendeva giá sulle valli e sulle cime piú basse per piú ore l'estrema vetta risplendette nel crepuscolo come uno spettro altissimo, di una luce che sembrava emanasse da lui".
PAKISTAN - Alim Abdul, ragazzo di Altit che sogna un lavoro a Dubai
Alim Abdul ha 26 anni, la sua famiglia vive a Altit, un minuscolo villaggio sulle rive dell'Índo dominato da una castello, ora in restauro, che é gemello con quella di Baltit-Karimabad, ma con in piú una cisterna che ora é la piscina del paese. Come quasi tutti nella valle di Hunza é mussulmano ismaelita, una setta nata nell'ottavo secolo da uno scisma tra sciiti e che ha come leader spirituale l'Aga Khan. Gli abitanti dell'altra riva del fiume, valle di Nagyr, sono invece sciiti. Parecchi anni fa tra le diverse comunitá di Gilgit e delle altre vallate della Northern Area ci sono state delle violenze. Gli ismaeliti sono una minoranza non sempre ben vista in Pakistan. Sono considerati eretici dai sunniti e anche dagli sciiti. Non hanno le moschee con muezzin, non si prostrano, non si coprono il capo. Alim Abdul porta i Levis, una T-shirt e una keffia. Potrebbe essere un ragazzo di qualsiasi cittá europea. "E' facile che ci scambiano per pathan (pashtun), dice ridendo e mettendosi la keffia in testa per scherzo.
Lavora come cameriere al Pearl Continental Hotel di Lahore, ma come ogni anno é venuto al paese in occasione dell'"Imam Ali day", una festivitá religiosa che gli ismaeliti celebrano a metá luglio. "Sono ferie non pagate purtroppo peché il mio é un contratto a tempo" si lamenta. "Adesso peró ho fatto domanda per andare a lavorare a Dubai". E' come a Natale per i cristiani, le case sono illuminate e piene di parenti arrivati da fuori. Il culmine della festa era ieri sera, con l'accensione dei fuochi, in realtá coppertoni cosparsi di kerosene, bruciati in cima ai dirupi e poi fatti rotolare a valle. L'effetto é di stelle cadenti dalle montagne.
Alim Abdul e gli altri ragazzi di Altit sono saliti fino al villaggio di Duikar, arroccato sopra uno sperone di roccia e lí hanno acceso i fuochi. La tradizione é che in questa notte scorrano fiumi di arak, la grappa locale fatta con il "mulberry", delle more bianche o nere che insieme alle albicocche sono la specialitá di Hunza. Gli altri giovani di Karimabad, Ganish, Aliabad e gli altri villaggi hanno fatto lo stesso inerpicandosi sui punti piú alti con il loro carico di pneumatici e taniche di kerosene. Alcuni hanno composto delle scritte con i fuochi inneggianti al profera Ali. Dio solo sa come hanno fatto a scendere in piena notte da quei precipizi. Mentre la vallata era punteggiata di roghi, luminarie e stelle Alim Abdul e gli altri sono scesi al loro villaggio sui rimorchi di due trattori urlando a squarciagola le lodi all'Aga Khan Karim e ad "Allah u akbar". Sventolavano una grande bandiera rossoverde che é l'insegna degli ismaeliti. Avevano tutti l'aria di divertirsi un sacco tra l'ebbrezza dell'alcol, il fervore religioso e l'eccitazione di scendere su un viottolo praticamente al buio visto che solo un trattore aveva i fari. Tutta la gente del villaggio era fuori in strada. Anche i genitori di Alim Abdul che stanno per cercare una moglie per il loro figlio. "Chissa se il prossimo anno saró ancora qui" sospira lui pensando al suo futuro a Dubai.
Ps Su quel rimorchio ieri sera c'ero anch'io.
PAKISTAN - Hunza, oasi felice dell'Aghan Khan
Non ne so molto degli ismaeliti, se non per via del principe Karim Aga Khan che vive a Parigi e che é padrone di mezza Costa Smeralda. Nella valle di Hunza, dove mi trovo, la popolazione é ismaelita. Se faccio il paragone con il resto del Pakistan, mi sembra un altro mondo. Ho perfino smesso di coprirmi la testa. Dopo due settimane di segregazione, é stata una piacevole sorpresa per me sedermi nei tavoli per strada a prendere il té. Ovviamente qui sono abituati ai turisti stranieri che percorrono la Karakoram Highway. Come in Ladakh, ho la sensazione che il "tasso di felicitá" della popolazione locale sia particolarmente alto. Certo il mecenatismo dell'Aga Khan ha contribuito, eccome, ma in maniera diciamo intelligente. Sono andata a visitare un progetto di restauro del forte di Altit, che insieme a Karimabad-Baltit e Ganish, faceva parte delle abitazioni del Mir di Hunza, che ha governato per quasi mille anni é riuscito a resistere anche agli inglesi. Il forte, costruito sopra uno sperone di roccia che si affaccia sul fiume Hunza, stava per piegarsi su un lato. Lo hanno praticamente raddrizzato con intreventi strutturali che sono durati tre anni. Adesso stanno restaurando porte e infissi e penso tra poco sará aperto al pubblico. Le sale hanno delle colonne di legno di albicocca finemente intarsiate. Hanno fatto un bel lavoro, soprattutto cercando il piú possibile di mascherare gli interventi. Per dire hanno nascosto le grondaie all'interno delle travi che sporgono dal muro. Ad accompagnarmi nella visita é il capo progetto Shukurullah Baig (Aga Khan Cultural Service Pakistan), un brillante architetto che il prossimo anno andrá a fare uno stage all'ILO di Torino. Ma il bello é che l'intero progetto é stato digitalizzato da un team di donne locali che lavorano come doceumetariste in un aparte del forte stesso. "Abbiamo insegnato come usare i programmi informatici e ora lavoriamo anche per privati". Intorno il villaggio é stato riabilitato. La fondazione Agha Khan ha pagato il 60 per cento delle spese di ristrutturazione delle case, mentre la geente ha messo il resto. E cosi il borgo di Altit si é ripopolato. Pensavo come sarebbe bello se Aga Khan si occupasse anche degli altri pachistani nelle valle un po' piú a ovest...
PAKISTAN - Karakoram, tra frane e ingegneri cinesi
Dopo 28 epiche ore di bus sono arrivata a Karimabad, che é il fulcro della Valle di Hunza, incuneata nella catena montuosa del Karakoram lungo la strada che va in Cina. Era la via della Seta, ora é diventata 'l'autostrada" del Karakoram, 1200 km dal nord di Islamabad fino al Kashgar, in Cina. L'area si chiama Northern Region e storicamente é sempre stata indipendente. A testimonianza che davvero il Pakistan é un collage di popoli e civilta' che si puó dire un po' volgarmente sono uniti con lo sputo. Piú o meno sono a un terzo della famosa strada, che molti fanno in bici, ma non ho il visto cinese e quindi non posso attraversare il confine.
La strada segue la valle del fiume Indo, che nel corso dei Millenni ha visto il passare di una grande varietá di gente, dagli ariani, ai macedoni di Alessandro il Grande fino alle armate di Gengis Khan. Mi é sembrata quasi piatta. Non mi sono accorta di essere salita piú di tanto. Mi trovo ora a circa 2000 metri, ma sono circondata da alcuni settemila completamente innevati, come il Rakaposhi (7788), mi vengono i brividi solo a guardarlo. Il paesaggio, arido con una complessa stratificazione geologica, é simile a quello del Ladakh. I tratti della gente mi ricordano quelli che ho visto nella valle di Dah, vicino a kargil, non lontano da qui, nel corso superiore dell'Indo. E' impressionante, sembrano italiani, francesi, alcuni anche tedeschi per i capelli biondi.
Il primo tratto di strada, a prevalenza collinare con fondivalle coltivati a frutta e riso, attraversa un'area tribale pashtun famosa non tanto per i talebani, quanto per i briganti. Non ci sono donne per strada e neppure sono gradite penso. Durante una sosta per il té il guidatore del bus, in realtá un pulmino con una trentina di passeggeri, si é fermato proprio davanti alla dhaba (trattoria) in modo che mi potessero passare le cibarie dal finestrino. Ma anche con la testa e il viso coperto ero al centro dell'attenzione. Ho rimesso gli occhiali da sole, perché in questo modo posso guardare in faccia gli uomini senza indurli in tentazione. Ho capito che lo sguardo sovente é l'unica forma di comunicazione per le donne (eccetto per quelle con il burqa...). Ricambiare uno sguardo maschile significa piú o meno "ci sto". L'autista non parla urdu, ma qualcos'altro che é una via di mezzo tra pashtun e cinese. La Via della Seta é una babele di lingue. Nel posto in cui mi trovo ora, ex regno indipendente di Humza, ce ne sono tre. E' bravissimo, come tutti gli autisti che ho incontrato nei miei viaggi sull'Himalaya indiano. L'unico problema é che non spegne mai il motore neppure nelle soste pranzo. Ho provato a spiegargli che é uno spreco di denaro, inquina e surriscalda il motore che é proprio sotto il mio sedere. Mi trovo nel primo posto del pulmino a fianco del posto di guida. Posto panoramico, ma anche il piú pericoloso. L'"autostrada" del Karakoram di tale ha solo il nome. In realtá é un passaggio piú o meno asfaltato tra una gigantesca pietraia frutto della mega collisione tra il continente africano e quello euroasiatico che é ancora in corso visti i frequenti movimenti sismici. Segue la linea di collisione tra le due placche tettoniche. Un bel casino, mi veniva da pensare, guardando quelle montagne sgretolate che sembrano venire giú da un momento all'altro. Non so se mai torneró da qui quando inizieranno le pioggie. Tutta la strada é a rischio frane. Ingegneri cinesi, in divisa di Mao e copricapo di bambú, guidano i lavori di costruzione di una "vera" autostrada, a due corsie e con muri di protezione. Deve essere un lavoro ciclopico, ma alla Cina interessa avere una via di comunicazione veloce verso il porto di Gadwar, che stanno costruendo sull'Oceano Indiano. Il bus é costretto ad andare ai 20 o ai 30 all'ora e spesso é fermato dalle ruspe, nuove di zecca, che stanno scavando il fianco della montagna. Dal finestrino vedo le rocce dilaniate dalla dinamite. Ma alcuni smottamenti sono naturali. Altri, mi dicono, sono stati provocati dal terremoto dell'ottobre 2005. Penso a quanto potrebbero resistere le persone nel pulmino travolto da una frana. Il mio telefonino é fuori campo qui, ma forse le squadre di soccorso possono rintracciare le mie coordinate dai segnali che invia al satellite. Ma ho anche le batterie scariche. Se invece é il ciglio della strada a franare, non penso ci siano speranze. La gola é ripida e profonda qualche centinaia di metri, tanto da ridurre il pulmino a un cartoccio di lamiere. Le rapide di un affluente del fiume Indo, che ne ha viste tante negli ultimi 5 mila anni, poi lo farebbero sparire per sempre.
PAKISTAN - Come travestirsi da donna pashtun
Dove mi trovo, a sud della Blue Area di Islamabad, manca la corrente ogni sera dalle sette alle otto e dalle nove alle dieci. Durante il giorno ci sono altre interruzioni di elettricitá, ma non sono programmate. Alcuni negozi hanno i gruppi elettrogeni, altri chiudono le serrande come l'internet cafe dove vado a lavorare. Approfittando di una di queste pause ieri sono andata a mangiare qualcosa in un posto che si chiama Taste and Take, una sorta di fast food frequentato da giovani. Pensavo che proprio per questo potessi sedermi nella parte "aperta" sulla strada. Invece no, mi hanno fatto muovere e mi hanno spedito al piano superiore dietro delle tende che un inserviente si é premurato di sistemare in modo che non mi vedesse nessuno. O forse in modo che il mio sguardo non si posasse su nessuno. La faccenda della segregazione tra donne e uomini crea delle situazioni divertenti. L'altro ieri nel mercato di Aabpara ho visto un capannello di uomini intorno a un venditore che decantava i prodigi di certe erbe medicinali e unguenti. Mi sono fermata ad ascoltare, cercando di carpire qualche parola in urdu. Un tizio si é avvicinato e mi ha detto che non potevo stare li. "Perché?" chiedo abbastanza seccata. "Sono medicine per uomini" mi dice imbarazzatissimo. Preparati contro l'impotenza, viagra organici o forse afrodisiaci? Non lo sapró mai...Ho scattato una foto e me ne sono andata. La sessuofobia raggiunge il suo apice sui mini bus che collegano i vari quartieri di Islamabad. I due posti accanto al guidatore sono riservati alle donne. Se ci sono piú passeggere sono accomodate in una fila di sedili dietro, ma solo se é interamente libera. La regola é di evitare il contatto fisico. Quindi anche se c'é un posto libero, ma vicino c'é un uomo, non si puó salire. Oppure gli si fa cambiare posto. E' una paranoia. Pensare che ho vissuto un lungo periodo in Medio Oriente e un anno intero nella Striscia di Gaza, ma non mi sono mai sentita cosí trattata da monatta.
Il mio collega Tahir Ali che scrive su Weekly Pulse, esperto di talebani, mi ha detto che somiglio ad una donna pathan (pashtun) che hanno la pelle bianca e corporatura robusta. Mi ha dato alcune dritte di come potevo "mascherarmi" tra la folla. A parte la combinazione di pantaloni, tunica e velo che giá indosso, mi ha suggerito di rimuovere dal polso lo Swatch, sostiture i miei sandali da trekking con delle ciabatte ricamate, non usare la borsa a tracolla e non indossare occhiali da sole. E poi non mettermi a leggere i giornali sul bus, abbassare lo sguardo quando cammino e soprattutto non guardare in faccia gli uomini. Insomma mi ha chiesto di annullarmi come giornalista. Ci ho provato, domenica sono andata a fare un giretto verso Peshawar usando diversi bus locali, passando in villaggi a influenza talebana. Funziona certo, mi scambiano per una pashtun, ma é terribilmente frustrante e noioso...Non ha nessun senso. Da oggi riprendo i miei panni di viaggiatrice, con macchina fotografica al collo e sandali impolverati.
Il mio collega Tahir Ali che scrive su Weekly Pulse, esperto di talebani, mi ha detto che somiglio ad una donna pathan (pashtun) che hanno la pelle bianca e corporatura robusta. Mi ha dato alcune dritte di come potevo "mascherarmi" tra la folla. A parte la combinazione di pantaloni, tunica e velo che giá indosso, mi ha suggerito di rimuovere dal polso lo Swatch, sostiture i miei sandali da trekking con delle ciabatte ricamate, non usare la borsa a tracolla e non indossare occhiali da sole. E poi non mettermi a leggere i giornali sul bus, abbassare lo sguardo quando cammino e soprattutto non guardare in faccia gli uomini. Insomma mi ha chiesto di annullarmi come giornalista. Ci ho provato, domenica sono andata a fare un giretto verso Peshawar usando diversi bus locali, passando in villaggi a influenza talebana. Funziona certo, mi scambiano per una pashtun, ma é terribilmente frustrante e noioso...Non ha nessun senso. Da oggi riprendo i miei panni di viaggiatrice, con macchina fotografica al collo e sandali impolverati.
PAKISTAN - Islamabad, sarebbe bello andare in giro in bicicletta
Sono da 4 giorni a Islamabad dove c'é una frescura alpina rispetto a Lahore. Mi trovo in una guesthouse di Sitara Market, uno degli anonimi blocchi residenziali della capitale intorno alla Blue Area. Mi sembra di essere a Sud di Delhi, ammasso anonimo di case basse e negozi disposti a rettangolo. Ma é difficile vedere segni di modernitá occidentale. Il maggior problema per me é spostarmi in strade chilometriche. Non ci sono autorisció, ma minibus che peró non arrivano ovunque. In compenso c'é quasi sempre un'auto che ti segue. All'inizio pensavo mi volessero offrire un passaggio,poi ho capito che sono privati cittadini che fanno i tassisti a tempo perso. Code e inquinamento sono inesistenti. Sarebbe ideale per la bicicletta. A differenza di Lahore, la gente é indifferente. C'é piú tensione nell'aria. L'altro ieri un attentatore suicida in motocicletta si é lanciato contro un bus governativo a Rawalpindi, la cittá gemella e sede del governo a una decina di chilometri da dove mi trovo.
Il ricordo del Marriot é ancora bruciante. Dopo tre anni esatti la Moschea Rossa, assediata dai militanti talebani del Waziristan per una ventina di giorni, é ancora in ricostruzione. La vicina madrassa é stata rasa al suolo. Ora c'é uno spiazzo pieno di erbacce. La crisi di Lal Majid del luglio 2007, risolta da Musharraf in un bagno di sangue, aveva segnato l'ínizio dell'insurrezione dei talebani e di una lunga scia di attacchi che continua ancora oggi. L'ambasciatore italiano Vincenzo Prati, che gentilmente mi ha concesso una chiacchierata davanti a un piatto di pasta, mi ha detto che le popolazioni pashtun del nord ovest sono rimaste imprigionate nel passato, come potrebbero essere i pellerossa negli Stati Uniti di oggi. Questo scarto storico é difficilissimo da recuperare a meno di non sviluppare l'economia della regione che ora é scesa nel caos, come scrive (dagli Stati Uniti) il super esperto Ahmed Rashid nel suo ultimo saggio. E l'Italia, grazie agli storici legami con il Pakistan, potrebbe giocare un ruolo importante.
PAKISTAN - Lahore a luci rosse
Il bordello di Lahore sorge appena dietro l'imponente moschea Badshahi Majhid. E' la vecchia cittá fatta di edifici dalla facciate scrostate, groviglio di cavi elettrici e un labirinto di viuzze. Qui sorge il bazar delle calzature. Il Pakistan é il regno del cuoio. In un negozio di sandali trovo Shama, un transessuale con la sua amica, un ragazzo piú piccolo con abiti femminili. Sono gli "hijra", una comunitá che esiste anche in India e fatta di castrati, trans e omossessuali, che si guadagnano da vivere ballando alle feste, matrimoni e nascite soprattutto. Ma probabilmente offrono anche altri servizi. Appena mi vede Shama si scioglie i capelli e comincia a ondeggiare la testa con una serie di movenze caricaturali. Un tizio seduto alla cassa aumenta il volume della musica - indiana come tutta la musica qui - che é memorizzata in un computer. Si mettono a ballare, con movimenti sinuosi, ondeggiando i fianchi e toccandosi continuamente i capelli. Scatto un po' di foto. La scena mi sembra surreale soprattutto perché mi trovo in un negozio di scarpe. La dimostrazione finisce quasi subito, evidentemente per il mio scarso interesse, poi mi offrono il té e parliamo un po'. L'autista di un riksció, che mi ha accompagnato, traduce dall'urdu. Shama ha iniziato a "ballare" quando aveva dieci anni e adesso é diventato una sorta di maestro. Guadagnano bene quando é stagione di matrimoni. Non hanno assolutamente nessun tipo di imbarazzo. L'amica di Shama ha dei seni appena accennati di cui va fiera. Stranamente non é truccata. Non oso chiedere se hanno fatto l'operazione...ma non penso, costa molto per loro.
Poco lontano incontriamo un tizio che dopo aver parlocchiato con l'autista chiede se voglio vedere uno spettacolo di danza al costo di 100 rupie (un euro). Ci porta in una stanza dove ci sono due donne decisamente sovrappeso, potrebbero essere madre e figlia. Mi spiegano che fanno una sorta di strip tease mentre gli uomini lanciano delle banconote. "E' uno spogliarello integrale?" chiedo curiosa. "No, nessuna qui si metterebbe mai nuda" é la risposta. Me ne vado fingendo delusione. Nelle altre vie interne, invece le ragazze sono sedute alla finestra, ma appena mi vedono chiudono in fretta le persiane. La serata finisce in un ristorante, famoso mi dicono, Coco's Den, il cui proprietario Israr Hussein appartiene a una famiglia di cortigiane. Il palazzo, pieno di cimeli, era probabilmente una casa chiusa. Dalla terrazza si gode una vista superba della moschea. Hussain é anche un pittore e ha riempito la sua casa di dipinti di donne alla finestra o languidamente sdraiate sul letto. Non so se le sue opere abbiano mai attraversato la soglia di casa...
Lahore, tra inferno e paradiso
Di record in record. Ieri eravamo a 47 gradi. Nella mia guesthouse hanno portato i materassi in terrazza e hanno dormito sotto le stelle. Mi sa che faró anch'io cosí ora, tanto non c'é pericolo di zanzare. Non ci sono altri esseri viventi in giro a questa temperatura. Ma c'é qualcuno ancora piú coraggioso di me. Nel primo pomeriggio stavo andando dal Forte Shahi (una copia piú piccola del Forte Rosso di Delhi) alla bella moschea in stile persiano di Wazir Khan. Il bazar era deserto di domenica, a parte qualche negozio di tabla e una fantastica giostra con i cavalli di legno azionata a mano. A un certo punto incrocio un'altra moschea chiamata Sunheri (dorata), un piccolo capolavoro di arte mughal in marmo bianco e scintillanti cupole dorate. E' li' che é avvenuto il mio primo incontro con un "ulema", uno studioso di Islam. Mi ha detto di chiamarsi Usman. In tunica bianca, con un turbante verde coperto da un velo e un grosso turchese al dito, stava mormorando delle preghiere. Prima di scattare una foto, lo saluto con un "Salam alekum". "Italiana?" mi dice subito. Sorpresa, gli chiedo come ha fatto ad indovinare. "Dal viso e dal colore della tunica". In effetti vado in giro con colori tenui che da queste parti non si usano, anche se sospetto che probabilmente qualcuno lo abbia avvisato. Da quando sono scesa dal risció almeno dieci persone mi hanno chiesto la nazionalitá. "Giornalista?"' mi chiede poi. Due a zero. Gli dico é molto perspicace e che ha un inglese oxfordiano perfetto. "Studiato a Londra?" domando. "No, ma ho molti amici e ho fatto la guida turistica. Adesso sto studiando l'olandese". Osservo le sue mani bianchissime che tiene sempre congiunte davanti a se. Mi racconta la storia della moschea e della devozione religiosa di Aurangzeb che io ho definito il piú crudele dei mughal. "Se i mughal erano cosí feroci allora perché in India c'é ancora una maggioranza di indú?". Incasso il colpo. Non mi ricordo poi perché mi metto a ridere un po' sguaiatamente su una battuta. "Ti ricordo che nelle moschee non si puó ridere". Giusto. Tempo scaduto, penso, ma invece di congedarmi, si offre di accompagnarmi nella moschea di Wazir Khan che é a due minuti. Prima di uscire si spalma sul viso un po' di olio profumato da un flaconcino. Me ne offre anche un po'. E' una fragranza decisamente femminile, glielo faccio notare per scherzo, ma non ride nemmeno un po'. A meta cammino si ferma a comprarmi un lemonsoda. "Perché non ne prendi anche tu?" domando. Mette una mano davanti al petto in segno di scusa: "oggi digiuno per 16 ore, acqua compresa". Continua a salmodiare i nomi di Allah mentre io tracanno in un fiato la bevanda. A 47 gradi mi sembra a dir poco eroico. Penso che anche i cristiani una volta si sottoponevano a simili privazioni. Davanti ai mosaici della moschea di Wazir Khan il suo viso si illumina. "In paradiso vorrei portare con me tre cose, questa moschea, il forte di Lahore e il mio Pir (maestro sufi). Poi si volta e mi chiede cosa io vorrei portare. Esito, davvero non lo so, non ci ho mai pensato. "Non penso di andare in paradiso" rispondo debolmente tra atroci sensi di colpa...
Lahore, tra traspirazione e cospirazione
Sono a Lahore da un paio di giorni. Lo ammetto. A differenza di molti turisti, tra cui anche donne, io non amo viaggiare in Pakistan. Mi da fastidio coprirmi la testa, non sopporto la segregazione sessista sui bus e nei ristoranti, anche se mi evita le resse, mi irrita quando gli uomini mi pagano le cose, mi aiutano ad attraversare la strada, si occupano di me come fossi una demente. Lo so che é solo senso dell'ospitalitá e rispetto per la donna, ma proprio non mi va giú. Sospetto inoltre che come giornalista di sicuro avró qualcuno alle calcagna. Ho giá fatto un errore. Dovendo comprare una carta sim per il telefonino, mi sono lasciata convincere da un tizio a fornire i suoi documenti di identitá per fare prima. Cosi ora il mio telefonino é sotto il nome di Mohammed Naveen. Il quale mi chiama due volte al giorno per premurarsi che tutto vada bene.
Sto cercando malgrado la calura di vedere un po' dei monumenti di Lahore, la cittá-giardino dei mughal, dice la mia guida, forse esagerando un pochino. Come a Delhi, gemella di Lahore ai bei tempi, fatico un po' a ritrovare i fasti del passato. In realtá spesso non mi accorgo neppure di essere in Pakistan. Sembra la vecchia Delhi, nei quartieri mussulmani, oppure il centro di Lucknow o di Hyderabad. Come previsto, anche qui c'é la stessa calura, forse di piú, siamo a 47 gradi, un forno a cielo aperto...o un inferno visto che manca quasi sempre la corrente. E' vero che ci sono i generatori (che contribuiscono ancora di piú a surriscaldare l'aria), ma - mi chiedo -come é possibile che la gente sia disposta ad affrontare circa 10 ore di black out al giorno senza ribellarsi? Mi dicono che la situazione é peggiorata e che con l'uso di condizionatori non c'é abbastanza corrente per tutti. E' lo stesso ritornello in India, a riprova che la religione o il colore del governo non c'entra. Io sono di passaggio, ma per la gente di Lahore deve essere davvero un calvario, forse ancora piú dell'allarme terroristico. A centinaia di chilometri da qui, si spendono miliardi di dollari nel combattere non ho ancora capito bene chi. Leggo ora su un editoriale del settimanale Weekly Pulse che il nemico numero uno Baitullah Mehsud é pagato dalla Cia...che ora lo vuole distruggere. Un ex giornalista, della Human Right Commission of Pakistan, mi ha detto ieri che il Paese é in mano all'esercito che si vende al migliore offerente. Nelle strade, tra la gente grondante di sudore - che pazientemente aspetta l'elettricitá sotto i ventilatori fermi - si tende a dare la colpa a Usa e India per tutto il casino. Piú aumenta la traspirazione e piú si ingigantisce la cospirazione...
Amritsar, alla mensa del Golden Temple
Sono in viaggio verso la frontiera con il Pakistan. L'unico valico aperto per gli stranieri é quello di Wagah, in Punjab, a pochi chilometri da Amritsar, la cittá sacra dei sikh. Siccome non l'ho mai visitata, ho deciso di fermarmi una mezza giornata prima di attraversare il confine. Ho preso un treno notturno, di quelli lentissimi e con questo caldo decisamente puzzolente, soprattutto perché come al solito mancava l'acqua nei cessi della mia carrozza. All'alba ero in stazione, un po' stordita, ma pronta a visitare il Tempio d'Oro, famoso monumento icona, una sorta di San Pietro per i barbuti e possenti punjabi. Non sono andata a vedere all'interno, c'éra troppa coda. Ho fatto un paio di giri intorno al laghetto sacro, pieno di giganteschi pesci rossi. Ho fatto anche il bagno, rinfrescante piú che prurificatore, nella sezione chiusa per le donne. Peccato perché avrei fatto volentieri una nuotata, ma temo che non me l'avrebbero permesso i guardiani armati di lancia che fanno la ronda sui bordi della vasca.
Ho visto il museo pieno di scene orride sui massacri di sikh da parte dei mughal. Capisco perché i fedeli sikh portano un pugnale alla cintola.
Ma la vera chicca del Golden Temple é la mensa funzionante 24 ore su 24 che sfama qualcosa come 30 mila persone al giorno! Sono rimasta stupefatta dalla logistica. Incredibile. Una macchina della ristorazione perfetta, una catena di montaggio dell'ospitalitá che si fonda solo sul volontariato. Ci sono quelli che lavano e asciugano i piatti di metallo, quelli che imburrano i ciapati che escono da una macchina che impasta, taglia e cuoce, i cuochi che cucinano il dal, la zuppa di lenticchie, poi quelli che servono le vivande. Ci si siede per terra su tappettini in file di 70-80 persone in uno stanzone. Dopo mezzora le gente esce e lascia al posto a quelli in fila fuori. Una macchina elettrica pulisce il pavimento. Giorno e notte, sette giorni su sette. Mai visto una cosa del genere.
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