Mezzo miliardo di cessi o di telefonini?


Leggo che secondo un rapporto del centro studi Informa Telecoms & Media, entro il settembre 2010 in India ci saranno 500 milioni di telefonini. Una previsione che non so su cosa sia basata e soprattutto se tenga conto dell’attuale recessione mondiale. Mezzo miliardo di telefonini. Non penso ci siano mezzo miliardo di cessi in questo Paese dove la maggior parte della gente fa i bisogni dove capita. Non penso neppure ci siano mezzo miliardo di rubinetti da cui sgorga acqua pulita o mezzo miliardo di banchi di scuola. A Delhi di recente è ritornata la poliomelite, orrenda malattia sconfitta dai vaccini ormai in tutto il mondo, eccetto che in India, Pakistan, Afghanistan e Nigeria. Sempre qui a Delhi in questi giorni che precedono il Diwali, la festa delle luci, nelle strade c’è un’emergenza traffico che è paurosa per gli effetti sulla salute pubblica e sull’ambiente. Ma i telefonini squillano per la gioia delle compagnie telefoniche e anche del governo che adesso sta vendendo le licenze per il G3 che si sostituirà ai vecchi cellulari quando anche qui il mercato sarà saturo. Continuo a stupirmi di quanto i telefonini siano riusciti a penetrare l’India nelle sue pieghe più profonde. Nelle campagne si usa ancora l’aratro trainato dai buoi, le donne fanno chilometri per prendere l’acqua e non ci sono scuole, ma le torri dei ripetitori svettano come moderni totem al dio delle telecomunicazioni. Il servizio pubblico di telefonia fissa, ammesso che ci sia mai stata o abbia mai funzionato, sta per scomparire.
D’altronde questo è un Paese che pochi giorni fa ha lanciato la sua prima missione lunare dalla base spaziale dell’isola di Shriharikota. C’è una bellissima foto d’epoca di Henri Cartier-Bresson del 1966 che ritrae una bicicletta che trasporta un pezzo del primo razzo costruito in Kerala probabilmente dai padri degli scienziati indiani che oggi hanno mandato la sonda Chandrayaan in orbita a scattare foto ravvicinate della luna.
Nel suo coacervo di contraddizioni l’India continua a stupirci e anche a indignarci. Era successo così anche nel 1974 con la bomba atomica che Indira Gandhi aveva fatto scoppiare nel deserto di Pokaran, dove molto probabilmente, c’erano dei villaggi in cui si moriva di fame. Oggi le carestie non ci sono più in India, per fortuna, ma ci sono più poveri. La crescita economica non è una certezza, eccetto che per gli economisti, ma la crescita demografica lo è invece. A meno che non troviamo un modo per partorire telefonini.

Ultime dalle passerelle di Delhi



Si dice che quando la borsa sale le gonne si accorciano e viceversa. In una settimana in cui la borsa di Mumbai ha bruciato i risparmi di milioni di azionisti neofiti, sulle passerelle di Delhi dominavano le minigonne.




Gurgaon, il deserto fuori e dentro i “mall”


Sabato scorso, dopo che il direttore del Fondo Monetario Internazionale ha scoperto che il sistema finanziario mondiale si trovava “sull’orlo di un collasso sistemico” ho preso lo scooter e sono andata a Gurgaon, la città satellite alla periferia di Delhi che dovrebbe diventare una sorta di Dubai indiana. Per ora l’unica similitudine è che sorge nel deserto. A parte alcuni striminziti giardini di palazzi signorili, il resto è una gigantesca colata di cemento punteggiata di tendopoli e mega cartelloni pubblicitari di marche di moda.
Folate di vento caldissimo sollevavano nuvole di polvere e sabbia rendendo il paesaggio ancor più surreale. Davanti ai “mall” c’erano decine di risciò che si facevano largo tra imperturbabili vacche. La vecchia India rimane sullo sfondo di quella nuova. Vedendomi ferma a fotografare un grosso bovino che si stagliava su una pubblicità del Sahara Mall, un tizio con una camicia elegante mi ha apostrofato con stizza: “Ma cosa fotografi? Non vedi che qui non c’è nulla!”. Ho tirato dritto seguendo il serpentone della futura metropolitana che taglia in due la strada tipo lo sky train di Bangkok e sono finita in un nuovo centro commerciale, mai visto prima, che si chiama “Gurgaon Central”. Alcuni operai stavano mettendo delle luminarie sulla scritta, forse per la prossima festa di Diwali. Al piano terra c’erano profumi, bigiotteria, borse e un po’ di gadget elettronici, al primo piano l’abbigliamento maschile, al terzo quello femminile e al quarto un supermercato alimentare dove c’erano le stesse cose che trovi nel negozietto di quartiere, solo che erano ben disposte in fila su scaffali lucidi e puliti. Ho comprato due bottiglie di Coca Cola Diet che erano scontate del 30%. Penso di essere stata la sola cliente. I miei passi venivano scrutati da decine di commessi e appena mi fermavo davanti a un articolo subito uno si accostava al mio fianco per assistermi nella scelta. A un certo punto ho avuto un po’ di vergogna perché sapevo che li avrei lasciati a bocca asciutta. Sono uscita cercando di evitare gli sguardi supplicanti dietro la fila delle casse. Con un certo imbarazzo ho sorriso al gruppo di guardie fuori che mi hanno spalancato le porte manco avessi delle borsate di roba.
Da lì, dopo un paio di altre foto a bovini, mendicanti e operai che si insaponavano contenti davanti ai futuristici grattacieli di vetrocemento, sono passata all’Ambience Mall, quello più grande costruito dal gruppo DLF, i “palazzinari” di Gurgaon, che vanta un chilometro di negozi per piano. Per handicappati e anziani hanno messo delle macchinette elettriche tipo quelle dei campi da golf. C’era decisamente più gente, soprattutto bambini che si divertivano come matti nella sala giochi e nel salto con l’elastico. Ho comprato in un posto molto all’americana un “doughnut” ripieno di cioccolata, ma dopo un paio di morsi mi sono accorta che dentro non c’era nulla. Mi sono lamentata e dopo pochi istanti è comparso il manager che si è scusato. “A volte capita” mi ha detto e me ne ha regalato un altro questa volta ripieno.
Ma a parte la zona “food”, anche qui nei negozi c’erano solo i commessi im piedi dietro le vetrine con uno sguardo implorante.
Da Reliance Digital, grande magazzino di hi-fi e elettronica, del colosso industriale di Mukesh Ambani, il più ricco dell’India che si è lanciato nel business dei supermercati, ho incontrato la portavoce del gruppo, Shalini Kumar, che stava cercando un paio di speaker. Dal suo tono ho capito che le cose non stavano andando molto bene, ma non solo a causa del “collasso sistemico” denunciato dal FMI. Non ci sono (ancora) abbastanza consumatori per quel tipo di negozi e di mercanzie che costano quanto metà stipendio di un impiegato indiano. Basta guardare fuori dai “mall” e osservare la gente per strada per capire che c’è qualcosa di sbagliato. Il tipo di clientela non corrisponde assolutamente al tipo di negozi. Quanto potrà durare?

Bicicletta selvaggia a Connaught Place


E’ passato del tutto inosservato il primo Delhi Critical Mass Cycling Event (http://en.wikipedia.org/wiki/Critical_Mass), organizzato da un intrepido gruppo di ciclisti che si illudevano forse di essere a New York o Chicago, dove questo genere di proteste ecologiche attirano migliaia di persone. Se non fosse perché sono convinta che qualcosa bisogna pur fare per salvare le nostre città, mi sarei sentita veramente patetica. E anche un po’ irresponsabile perché ho pure coinvolto mia figlia mettendo a repentaglio la sua incolumità fisica. Manco a dirlo era l’unica bambina straniera. C’era solo un altro suo coetaneo indiano. Lo so che quelli che di solito preferiscono viaggiare con fuoristrada giganteschi, che se solo potessero ci mettono i rostri alle ruote, saranno inorriditi. A New Delhi in bici!!! Ebbene sì, in bici, tre volte, TRE, il giro di Connaught Place dalle sei alle sette di venerdì sera. Altro che avventure estreme. Peccato che eravamo solo una cinquantina di intrepidi. Ma il serpentone a pedali che formavamo era sufficiente a perturbare il traffico, non a bloccarlo, ma sicuramente a farli incazzare per bene. Lascio immaginare le clacsonate a spiano, le sgommate, gli improperi degli automobilisti e anche, ahimé, dei motociclisti (categoria di cui faccio parte). Nonostante i cartelli improvvisati e attaccati con il nastro adesivo al manubrio, tipo “This Is Also My Road” o “Burn Fat Not Fuel” e lo scampanellio continuo, penso che pochi abbiano capito perché una cinquantina di pazzi furiosi, alcuni bardati come Pantani, avevano deciso di uscire in bici di venerdi sera. In India la bicicletta è sinonimo di povertà, non di ecologia.
Non ho visto nemmeno un sorriso di solidarietà nel traffico, solo sguardi cattivi o assenti come quelli degli autisti, bestie da soma a motore. Un paio di volte qualcuno di noi, con le bici più veloci, che si era staccato dal gruppo, ha rischiato di essere stirato sotto. Meno male che un paio di organizzatori avevano una paletta luminosa e cercavano di fermare l’orda rombante della rotatoria infernale di Connaught Place. Il traguardo era India Gate, purtroppo non ci sono arrivata perché mi hanno chiamato dal Giornale e dovevo pedalare fino a casa per fare un pezzo. Non so se ci sono mai arrivati…a un certo punto mi è sembrato che il corteo si fosse rimpicciolito. Prima mi era sembrato di vedere anche due bambini biondi con un monopattino, ma forse era una visione provocata dall’asfissia da CO2. Per favore facciamo qualcosa per rendere vivibili le nostre città.