SH08, un po’ di folklore al monastero di Pyangh
Spedizione Himalaya 2008, giorno trentacinque, Leh-Pyangh
Prima o poi doveva succedere che finissi ad uno spettacolo folkloristico di danze religiose ladakho-tibetane. Siccome mi avevano detto che questo tipo di eventi attirano di solito folle di turisti, avevo cercato di evitare. Ma un viaggio in Ladakh non è completo senza uno ‘tsechu’, un festival che ogni monastero tiene ogni anno di solito in estate per due giorni con un elaborato programma di danze rituali accompagnate dal suono di lunghi corni, tamburi e cimbali.
Grazie al passaparola dei turisti a Leh ho saputo che oggi la festa iniziava a Phyang, a 20 km, che è un gompa minore, non particolarmente attraente dal punto di vista culturale, ma che sorge su un cucuzzolo al centro di una bella vallata verde. Ci sono dei lavori in corso per costruire nuove strade e nuovi edifici, non sempre consoni con quelli vecchi. Una colata di cemento che avevo già visto nel mio precedente viaggio in Ladakh in particolare a Chemrey, il monastero del film Samsara. E’il solito dilemma tra progresso e conservazione del passato. Ovviamente il punto di vista di un occidentale in vacanza non coincide con quello della gente che vuole avere strade e una vita più facile.
Come succede in questi casi, le viuzze del monastero erano stracolme di bancarelle, mendicanti e venditori di albicocche. Mi sarei aspettata una sorta di biglietto di ingresso per entrare nel cortile dove c’era lo spettacolo. Invece no, a differenza dell’ingresso nel tempio, era gratuito. La gente era assiepata intorno e nelle loggia al primo piano. Alcuni erano anche saliti sul tetto e avevano piazzato il cavalletto per fotografare o filmare. E` impressionante vedere lo sfoggio di tecnologia fotodigitale. Molti turisti, soprattutto francesi e italiani, hanno teleobiettivi professionali. A vederli così impegnati e concentrati sulle riprese mi sembrava di essere ad un evento mediatico straordinario…
I danzatori, di solito quattro o cinque, con maschere e pesanti costumi broccati, sono guidati da un monaco che li segue a pochi metri. Anche loro sono monaci. Semplificando rappresentano la lotta tra le forze del bene e del male in una complessa simbologia che io, nella mia ignoranza, non sono assolutamente in grado di capire. Ogni danza era però preceduta da una breve spiegazione sull’origine del mito che intendeva rappresentare.
Ammetto che data la lentezza dei movimenti e la monotonia dei passi, dopo mezzora lo spettacolo diventa noiosissimo. E di fatti non ho resistito oltre, anche perché mi stavo beccando un’insolazione. Sono scesa dalla mulattiera che costeggia una fila di chorten e poi da li al fiume che non sono riuscita a guadare. Attraversando i campi di grano e orzo protetti da fasci di ginepro secco che è quasi come il filo spinato, mi sono ritrovata nel cortile di una casa privata dove giovani e vecchi stavano pranzando all’aperto su una tavola imbandita. Mi ha ricordato le nostre feste di paese, le sagre estive e le processioni con il santo locale e la banda. Anche se mancano le costine alla griglia e il barbera, è la stessa cosa anche qui a Pyangh. No, non è solo uno show per turisti.
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