SH08, la marijuana davanti al carcere di Mandi

Spedizione Himalaya 2008, Mandi, ottavo giorno

Qualcuno me l’aveva detto, ma era veramente difficile crederci. Invece è tutto vero: davanti al carcere di Mandi crescono lussureggianti cespugli di marijuana. E’ forse una sorta di contrappasso per i detenuti che per la maggior parte dei casi sono dentro per storie di droga? Stamattina sono andata alla prigione, una palazzina grigia, tra case e negozi, dove sono rinchiusi da oltre un anno due italiani con l’accusa di traffico di hashish. E’ una storia torbida da cui spero possano uscire il più presto possibile prima che il carcere li segni per sempre nel fisico e nella mente. Ho anche fotografato le pianticelle di ganjia, come viene chiamata in India l’erba da fumare che cresce (spontaneamente?) nelle vallate più a nord verso Manali e nella famosa Parvati Valley.
Mi chiedo spesso, nella mia assoluta ingenuità, perché - pur essendo più che risaputo che queste zone riforniscono mezza India di hashish - nessuno abbia mai avuto il coraggio di fare o dire qualcosa. Per nessuno intendo chiaramente le autorità indiane. Dicono che la polizia è corrotta, che sarà pur vero, ma è un gioco delle parti perché in fondo fa comodo a tutti, spacciatori e consumatori. Certo ci sono grossi giri di soldi e forti interessi, ma non siamo in Colombia, almeno cosi mi sembra, poi magari mi sbaglio. Non conosco la realtà del narcotraffico indiano. Mi è capitato di parlare con dei ragazzi italiani a Goa che si ‘’riforniscono’’all’ingrosso Manali d’estate per poi vendere d’inverno al dettaglio sulle famose spiagge dello sballo. Poi ho parlato con un ragazzo di Manali, che mentre pascolava le vacche, “’faceva’’ l’hashish che si ricava strofinando le foglie di marijuana con le mani e riducendole a dei salamini oliati e marroni. Non avevo mai visto il procedimento e, per curiosità giornalistica, gli avevo chiesto di mostrare come faceva. Ho anche provato, ma non è venuto granchè. Il tizio vendeva poi il prodotto appena fatto e probabilmente non aveva la minima idea che stava facendo qualcosa contro la legge. Ma a parte questi episodi limitati, non ho assolutamente idea se la produzione sia concentrata in cartelli della droga o se ci sian un sistema di piccole imprese, per dirla secondo una terminologia economica.
A Manali la marijana cresce, forse qui spontaneamente, nelle aiuole e sul ciglio delle strade insieme alle ortiche e altre erbacce. Praticamente in tutti i classici posti per turisti fricchettoni, da Paharganj a New Delhi, a Varanasi, per non parlare di Jaipur e di Goa, ti fermano per strada per offrirti la charas (hashish), in particolare quando scoprono che sei italiano. La cosa mi infastidisce tremendamente tanto che di solito reagisco male e gli ricordo che stanno facendo qualcosa di illegale. Ma si mettono a ridere, ovviamente. Evidentemente la domanda c’è eccome e gli italiani sono tra i primi della lista degli acquirenti. Secondo me sarebbe ora di cambiare questa opinione, ma qui rischio di passare per bacchettona.

SH08, Chindi-Mandi, in solitaria per 100 km

Spedizione Himalaya 2008, settimo giorno, Chindi-Mandi

Per un’intera giornata sono stata nel mondo extra Lonely Planet. Non so quante vallate ho attraversato con la stessa sequenza di salite lungo i fianchi della montagna, falsipiani in cima con tempio, discese (che facevo a ruota libera) tra boschi e pinete, poi una piccola cascata, il villaggio, occasionalmente qualche risaia, delle donna con vacche e capre al pascolo e altre donne che stendevano i panni sull’aia di case bianco-blu, operai seduti con i badili infangati e altri intenti a spostare tronchi. Ho esordito con il mio primo passaggio nel fango, con lo scooter che slittava e i miei scarponi completamente affondati nella melma.
La faccenda si fa sempre più difficile mano a mano che salgo a Nord ovviamente, però il mezzo tiene bene come direbbe un campione di rally. Da quando ho poi cambiato la gomma va su che è uno spettacolo. Non so se è per via delle frane in strada o perchè è un tratto decisamente poco battuto dai turisti, ma praticamente ho viaggiato quali sempre in solitudine. Arrivata alla strada nazionale per Mandi, dove mi trovo, non è stato facile abituarsi al fumo e al rumore dei camion.
A Mandi , città punjabi più che himalayana, ho avuto una spiacevole esperienza che mi ha messo di cattivo umore. Stavo per imboccare la stradina privata che porta all’hotel, Raj Mahal Hotel, molto curato e con un bel giardino, quando un gippone mi ha strombazzato dietro. Irritata ho fatto segno di passare. Il tizio si è fermato davanti in segno di sfida nonostante stavo per asfissiare per i gas di scarico. “’Questo e il mio paese”’ ha risposto alle mie proteste con una strafottenza che non avevo mai visto in India. Mah, ci sono rimasta davvero male.

SH08, il meleto del signor Gopal


Spedizione Himalaya 2008, sesto giorno, Tatapani-Chindi

Mi sono svegliata di nuovo con la pioggia. I fumi delle acque sulfuree si confondevano con quelli della foschia con un effetto surreale. Il cielo si è schiarito solo dopo 4 ore quando insieme a Kushal, il nipote del proprietario dello Spring View Hotel sono andata a cercare una gomma nuova nel mercato oltre il fiume per affrontare strade che già mi immaginavo piene di fango e detriti. Mi ha portato a bordo della sua nuova Royal Enfield super opzionata e superammortizzata. Lui affitta anche le moto. Gli ho proposto di organizzare tour in scooter, meno macho della Enfield, ma sicuramente più originale, più divertente e secondo me più comodo.
Quando avevo già il mio pneumatico Ceat (da buona piemontese…) sotto il braccio, si è verificato un curioso e inaspettato fuori programma del mio accompagnatore che mi dice aspetta un attimo e si infila in un bugigattolo che poi ho scoperto essere un dentista. E’ riemerso 40 minuti dopo con la guancia gonfia, si era fatto curare una carie, mi ha detto mentre lo guardavo sbalordita.
Comunque insomma alla fine sono partita e sono entrata ufficialmente nel mondo sconosciuto e misterioso che sta al fuori della Lonely Planet. In effetti è stato un salto nel buio se non altro perché tre cartine geografiche da me consultate indicavano nomi, posti e strade diverse. Come immaginavo la strada in alcuni punti era bloccata dalle frane, ma con la moto si riusciva a passare, per fortuna. Ho visto anche un bus più tardi. Sapevo che c’era una guest house dell’Himachal Pradesh a 40 km, ma era al di sopra del mio budget. A due km, in un posto che si chiama Chindi, ho invece trovato il Gopal “’Apple Valley Resort”, una palazzina a due piani, appena inaugurata, ma molto carina, se non un po’ rumorosa almeno le stanze vicino alla reception. E inserita in un meleto, il proprietario è il fattore, ha una ventina di famiglie alle dipendenze e vive su una collina coltivata a mele che ha battezzato Lovers Hill. Ma il personaggio più curioso è il gestore, un neo pensionato dell’ufficio turistico dell’Himachal Pradesh, che ha preso molto sul serio il suo ruolo di general manager, come si vede da una mega targa all’ingresso. Sette figli, tutti sposati, ora si diverte con un cucciolo di Cocker Spaniard che si tiene in braccio come un cane da passeggio. Dopo avermi presentato la moglie e la cognata, esaltato le virtù del posto e chiesto della mia situazione familiare si è sbottonato: sono la prima turista straniera dell’Apple Valley Resort.

SH08, viva le terme sulfuree di Tatapani


Spedizione Himalaya 2008, giorno quinto. Shimla-Tatapani.
I miei propositi di partire di buon ora si sono infranti con un diluvio che all’alba si è abbattuto su Shimla con una violenza tale che pensavo franasse tutto giù. Ho messo il naso fuori dall’ostello solo alle 12 quando il cielo si è schiarito e finalmente mi sono rimessa in viaggio indossando praticamente tutto quello che avevo nello zaino. Per fortuna sono riuscita a trovare una giacca impermeabile per bambini, taglia forte, che mi sta a pennello. Uscire da Shimla è stato come uscire da Milano la vigilia di Ferragosto. Con l’aggravio di un asfalto lavato via dalla pioggia. Insomma un disastro per orecchie, polmoni e sistema nervoso. Però, poi come spesso succede in India improvvisamente tutto si è risolto nel modo migliore possibile. Gli indiani sono riusciti a negare la legge dell’entropia che se non sbaglio dice in natura tutto tende al caos. No qui l’assioma è che il caos insito nella natura segue una sua direzione e prima o poi si trasforma in ordine. Insomma é uscito il sole e il caldo, ho fatto 50 chilometri fantastici, tra il verde di campi da golf, foreste di pini, paesaggi bucolici, panorami mozzafiato, caprette al pascolo e profumo di giacinti. Incontrando sì o no 4 o 5 veicoli. Per fermarmi poi in un villaggio, segnalato dalla Lonely Planet, ma troppo fuori rotta per i turisti della domenica, che si chiama Tatapani, del tutto anonimo se non fosse perché sorge in una zona termale. Per me - che già non ne potevo più del mio abbigliamento pseudo-himalayano - era un richiamo troppo forte per resistere. Finalmente con le ciabatte e in maglietta mi sono concessa un pomeriggio di bagni nelle acque sulfuree sul greto del Sutlej - che non è un ‘torrente di montagna” come pensavo quando l’ho visto scorrere in fondo alla vallata, ma è uno dei principali tributari dell’Indo. Insomma un signor fiume che nasce in Tibet, attraversa un paio di vallate in India, continua in Pakistan e finisce nel mar arabico. Adesso che si stanno sciogliendole nevi, le sue acque sono di un marrone scuro e posso sentire da qui la sua voce. Mi trovo in una delle due guesthouse di Tatapani, “Spring View Hotel” che è gestita da un ragazzo il cui zio si è accasato a Cremona con un’italiana (che da turista era venuta qui!!!!). Lei fa l’insegnante di ginnastica e lui ha un centro di ayurveda in cui pratica anche il ‘bagno del fieno” come leggo da un biglietto da visita che mi ha prontamente allungato il nipote. Hanno tre figli. Il ragazzo organizza anche viaggi in Enfield per i turisti che lo zio gli manda. “Ma pochissimi italiani vengono qui” mi dice. Scopro poi, con un certa angoscia, che tra pochi mesi il posto in cui mi trovo sarà sommerso dal fiume per via di uno sbarramento più a valle per fare una centrale idroelettrica. Quindi spariranno anche i soffioni che sbucano sulle sponde. ’’Ma non è un problema, qui basta scavare e l’acqua viene su di nuovo’’ mi tranquillizza. A quanto pare l’intera area è caratterizzata da attività geotermica, molto frequente tra l’altro nell’Himalaya. Aggiunge poi che con i soldi del risarcimento statale sta costruendo un hotel ultralusso con spa, piscina, ecc. Avevo visto lo scheletro di cemento da lontano. Insomma Tatapani come le terme di Salsomaggiore. Per ora mi godo l’energia positiva del posto, come direbbero i miei amici fedeli di Osho, che in effetti c’è in questi vapori bollenti che arrivano dalle viscere della terra e che rendono tiepide le gelide acque dei ghiacciai.

SH08, sosta a Shimla, buen retiro degli inglesi


Oggi mi sono dedicata alla preparazione fisica e all’adattamento climatico approfittando che a Shimla fa un freddo cane, è già oltre i 2000 metri e sorge su un ripidissimo costone di montagna. Ho camminato un po’ su e giù con gli scarponi che non indossavo da un anno andando alla ricerca di tutti i simboli coloniali di questo buen retiro degli inglesi. Il tempo è veramente atroce. La città sembra sospesa tra le nuvole. Sei come avvolto in una bolla di vapore acqueo. Veramente deprimente. Il sole è comparso per qualche secondo, troppo breve anche per una foto, quando mi trovavo a visitare il palazzo dei vicerè britannici, il “viceregal lodge”, che forse per nostalgia della foschia londinese avevano scelto questo posto come residenza estiva fin dal 1888 quando fu costruito. Dopo l’indipendenza, è diventato il palazzo estivo del presidente indiano e quindi nel 1964, dopo l’invenzione dei condizionatori, è stato trasformato in un prestigioso istituto di studi sociali e umanistici. Ha un po’ l’aspetto di un castello scozzese e con la nebbiolina di oggi mi ricordava il film Highlander, l’ultimo immortale…. Dentro è tutto in tek con elaborati soffitti in stile kashmiro come spiegava una guida molto in gamba. Qui è stato firmato l’atto della Partition tra India e Pakistan nel 1947. Ci sono delle bellissime foto d’epoca del Mahatma, magrissimo, salutato dalla folla, e di Nehru, a cavallo, davanti all’ingresso. E poi di lord Mountbatten seduto a un tavolo rotondo, che è ancora qui, ma non si sa è l’originale, insieme a Jinnah, allo stesso Nehru (che si era innamorato della moglie di Mountbatten) per la storica firma. Tra queste mura si è svolta anche la “conferenza”’ di Shimla nel 1945.
Visto l’inutilità dei punti panoramici, sono poi andata nel vicino museo statale dell’Himachal Pradesh che contiene la famosa lettera del Mahatma a Herr Hitler, Berlin, Germany, (non so se è veramente l’originale, sembrerebbe) scritta il 27 luglio 1939. “It is quite clear that you are today the one person in the world who can prevent a war which may reduce the humanity to the savage state. Must you pay that price for an object however worthy it may appear to you to be? Will you listen to the appeal of one who has deliberately shunned the method of war not without considerable success? Anyway may I anticipate your forgiveness if I have erred in writing to you”. Impressionante, vero?
Per completare la mia immersione nel Raj britannico, ho preso per divertirmi il trenino e sono andata nella prima stazione in basso a 11 chilometri. Ero nella carrozza “ladies only”’ in coda e quindi dal finestrino vedevo tutto il trenino quando curvava passando degli strapiombi pazzeschi. Peccato che non si vedeva nulla in basso o in alto se non una spessissima coltre di nebbia. Il trenino tra le nuvole con dei minipassaggi a livello, minigallerie, ministazioni che sembrano costruite con il traforo. Immaginavo quando le mogli degli ufficiali e dei funzionari inglesi scendevano con le ampie gonne e l’ombrellino di pizzo…
Per finire il riscaldamento sono salita al tempio del dio scimmia Hanuman, il monkey temple o Jakhu temple, che sovrasta Shimla a 2455 metri. Ho raccolto la sfida di un cartello all’inizio della strada, secondo il quale se uno saliva in 30 minuti era “absolutely fit”. Ce l’ho fatta e quello è stato il momento più esaltante della giornata. Ho perfino fatto un’offerta al bramino che mi ha impresso sulla fronte la benedizione di Hanuman che da ora in poi veglierà sulla spedizione Himalaya 2008.

SH08, Shimla, non c'è la neve ma quasi


Il primo impatto con l’Himalaya è stato traumatico. Ero appena uscita da Chandigarh, delirio urbanistico franco-elvetico di Le Corbusier, che la strada ha iniziato a salire. Dopo una decina di chilometri mi sono apparse le montagne all’orizzonte, con le cima immerse in minacciosi nuvoloni grigi e in uno spesso strato di foschia. Sono andata in panico. Mi sono fermata in un negozio a chiedere una giacche a vento e pantaloni impermeabilizzati. Poi sono andata alla ricerca di pneumatici da pioggia. Le gomme del mio scooter sono lisce, prima o poi bucherò, lo so, a Delhi mi capita una volta alla settimana, figuriamoci sulle strade himalayane! Verso le tre del pomeriggio sono entrata nello stato dell’Himachal Pradesh. Lo si è capito subito dalla quantitá di frutta che vendono a bordo della strada. Mi sono anche fermata a bere il famoso succo di mele. I primi tornanti li ho fatti a venti all’ora con il terrore che il motore non ce la facesse. Devo dire che ha retto benissimo, più di me che dopo mezzora di montagna, quando ha iniziato a piovigginare, avevo già indossato l’intero mio equipaggiamento alpino consistente in una felpa, una giacca di cotone e dei guanti da palestra. Orrendo. Penso di avere rischiato il congelamento quando ero a 20 km da Shimla, che ho scoperto è a oltre 2000 metri e non ‘’in collina’’ come pensavo io. Il dramma è che la gente era tranquillamente in mezze maniche. Forse sono ormai troppo abituata al caldo umidiccio dei 35-40 di questi ultimi due mesi? Può darsi, ma qui a Shimla ho indossato gli scarponi completando così la trasformazione in creatura himalayana o yeti.
La montagna per arrivare a Shimla, che era praticamente la colonia estiva degli inglesi - ci hanno costruito pure un’impervia ferrovia che insieme a quella di Darjeeling, a est, è diventata celebre tra i turisti – è devastata da un’eccessiva antropizzazione come direbbero gli esperti. E’ zozza, perché non viene raccolta la spazzatura, violentata a livello edilizio e senza nessun carattere uniforme, se non quello dei tratti somatici degli uomini e donne dell’Himachal, con i loro “kullu cap”. Non mi ha mai impressionato questa parte dell’Himalaya che somiglia molto a un paesaggio alpino, ma senza mucche con il campanaccio e molto più sovraffollato. A proposito, sembra che a Shimla, ci sia mezza popolazione del Punjab e anche mezza Delhi. E’ il periodo di massimo affollamento. La strada pedonale principale, il Mall, era avvolta in una nuvola di freddo e vapore, ma si faceva fatica a passare. Ci sono migliaia di famiglie con torme di bambini, non riesco a capire dove alloggiano tutti. Ristoranti sono stracolmi e i parcheggi sottostanti l’area pedonale anche. Alle sei quando sono arrivata c’era un grande ingorgo di auto, parcheggiatori, quelli che ti trovano le camere e facchini. Un inferno a 2000 metri. Tanto che la città non ce la fa con l’acqua e i rubinetti in molti hotel sono a secco. Io per fortuna mi sono fatta una doccia calda qui al YMCA, di solito una garanzia, che sorge a fianco della chiesa gotica illuminata di notte. E’ però impressionante il silenzio assoluto, quello della montagna, mi ci devo ancora abituare…

SH08/Chandigarh, ecco dove è la nuova India


Quelli che le spedizioni (SH08 sta per Spedizione Himalaya 2008, adesso farò anche un logo) le fanno sul serio direbbero ‘’oggi ci siamo sparati 200 chilometri”. Invece io dico che dopo essere partita da Panipat e fermata a pranzo a Karnal, dove confluiscono i cereali prodotti in Haryana e in Punjab, mi sono appisolata sul ciglio di una risaia spaparanzata sullo scooter con i piedi sulla ruota di scorta. La scorsa notte non ho dormito a causa di un rumorosissimo generatore sotto la finestra che entrava in azione ogni mezzora e che - non scherzo - faceva tremare il letto. Pensare che avevo rifiutato la camera ‘superdelux”’ perché si affacciava sulla strada e avevo scelto invece la “’delux”’’all'interno che mi sembrava più tranquillo. Nel dormiveglia mi sembrava di viaggiare dietro un camion gigantesco senza poterlo mai sorpassare. La corrente da queste parti è davvero alternata nel senso che va via e ritorna ad intervalli regolari. Come se non bastasse poi la mia vicina di casa a Delhi mi ha chiamata alle 3 e mezza per dirmi che avevo chiuso dentro il cortile un cane di strada, Ringo, che ho recentemente adottato. La povera bestia si era probabilmente messa dietro un vaso per sfuggire alla calura e quando sono partita non me ne sono accorta e l’ho chiuso dentro!!!! Dopo un po’ nella notte lui si è messo ad abbaiare come un matto svegliando l’intero vicinato.
La Trunk Road oggi però era decisamente meno divertente, l'ho lasciata al bivio per Amritzar dove si ferma al confine con il Pakistan. Per chilometri non ho visto altro che campi di riso, pioppeti, alveari, bufali pieni di fango e trattori nuovi di zecca. A differenza del Sud qui l’agricoltura è completamente meccanizzata. Haryana e Punjab, dove sono entrata verso le 5 e mezza dopo la pennichella e svariate soste per il chai e sigaretta, sono i veri granai dell’India. La terra è supersfruttata e piena di pesticidi. Qui c’è un’incidenza di tumori da far paura, ogni tanto la stampa fa qualche inchiesta, ma non sembra interessare più di tanto. L’autostrada è ben asfaltata e ci sono siepi di oleandri tra le carreggiate. Se non ci fosse ogni tanto qualche camion che ti arriva in contromano e risciò stipati di gente con il turbante, potrebbe somigliare a un’autostrada europea.
Mi trovo ora a Chandigarh, la capitale costruita da Le Corbusier che secondo me era un grande appassionato di Lego. È la negazione di qualsiasi cosa indiana. Geometrica, armoniosa anche se non mi piacciono tutti 'sti casermoni di mattoni, e poi pulita e ordinata. Pazzesco. E’ pure smoking free, vfoetato fumare nei luoghi pubblici, come avverte un cartello all’ingresso della città dove campeggia sopra la strada un cartello ''Welcome to Chandigarh, the ciy beautiful". Chissà se è voluta quell'inversione di aggettivo. Non ci sono neppure gli autorisciò. Non ho visto una vacca o un cane randagio. Il settore 17, che è il “centro”, dove ho trovato un hotel abbastanza decente,è ancora più impressionante. I marciapiedi sono puliti, ci sono negozi di tutte le marche compreso un megastore Benetton, la gente fa il passeggio serale senza rischiare di essere stirata sotto un'auto. Non si sente neppure una clacsonata, ma solo le risate dei bambini intorno a delle fontane-sculture luminose. E’ la giovane classe media, vestita all’occidentale, con il portafoglio pieno e tanta voglia di fare le cose che prima poteva fare solo a Londra. Addirittura ho visto un supermercato con la cantinetta dei vini!!! A Delhi se lo sognano….Mi chiedevo mentre camminavo a bocca aperta, e se non ci fosse stato Le Corbusier?

Spedizione Himalaya 2008, prima tappa Panipat


Esattamente un anno dopo mi ritrovo on-the-road-again per i prossimi due mesi. Ho deciso di salire a Nord verso quell’Himalaya che continua ad affascinarmi con le sue leggende di Shangri-la perdute, di superstiti tra gli ariani e di pseudo tombe di Gesú Cristo. Se poi ci aggiungi i tibetani con il loro corollario di mantra e di stupe e il paesaggio lunare del Ladakh, beh…non c’è che l’imbarazzo della scelta.
Sono stata l’ultima volta due anni fa in autostop, questa volta però ho voluto aggiungere un po’ più di avventura. Sono partita con il mio scooter, un Honda Activa automatico, di seconda mano che conosco come le mie tasche e a cui sono anche un po’ affezionata. Se non ce la fa vuol dire che l’avrò portato a morire nell’Himalaya, che per uno banale scooter targato Delhi non è poi così male…Dopo aver visto la deludente partita della nazionale al ‘Bar Sport”’ dell’ambasciata, uno dei ghiotti piaceri della vita di noi “emigranti” e aver scritto un pezzo sul tifone delle Filippine, ho caricato uno zaino e preso uno stradario dell’India. Ho fatto il pieno e sono partita per la spedizione Himalaya 2008. Senza nessuno che mi salutasse se non i vicini che mi guardavano perplessi scrutare la cartina geografica seduta sullo scooter fuori il cancello. Ahimé dopo sei anni e passa a Delhi, non ci so ancora uscire. Andando a naso a Nord, mi sono diretta verso il Forte Rosso e poi da lì mi sono persa nel campus della Delhi University. Ridendo tra me e me pensando alle mie ambizioni himalayane, a forza di chiedere indicazioni sono riuscita a imboccare la famigerata Trunk Road, la nazionale numero uno che attraversa uno degli hinterland più devastati al mondo. Non c’è immaginazione dantesca capace a spiegare l’accozzaglia di bipedi, quadrupedi, sgangheratissimi autorisciò, baracche di lamiera e cartelloni pubblicitari di whisky. Sì, perché una delle immagini più frequenti della Trunk Road, TR per i locali, sono i wine shop anzi gli “English Wine Shop”. Il tutto su una strada che mi ha preparato ad affrontare la fatidica Manali Leh, per metà sterrata, tra vallate a 4-5 mila metri. Sono poi rimasta sconvolta dall’’avanzamento dei lavori della nuova linea della metro, lo sky line, che corre come un serpentone di cemento in mezzo alla strada contorniato da migliaia di omini dal casco giallo. Giuro che fino a pochi mesi fa non c’era nulla. E’’ lo stesso che a Gurgaon, è emersa da un giorno all’’altro, come se i suoi pilastri sbucassero dal sottosuolo. Avrei voluto fermarmi per vedere se ne vedevo emergere uno.
Dopo un paio d’ore sono finalmente uscita dalla metropoli e ho superato la soglia di non ritorno, ovvero quel limite in cui hai non ha più senso tornare a casa. E’ lì che inizia il viaggio, come quando la barca lascia gli ormeggi. Sei giá in navigazione anche se vedi ancora la costa. Lo scooter, la moto in generale, ti permette di vedere un sacco di cose che non puoi vedere con il bus troppo veloce o a piedi, troppo piano. Per esempio sono passata da Azadpur che è il gigantesco mercato ortofrutticolo all’ingrosso di Delhi, non me ne ero mairesa conto che era qui. Passando vicino ai cancelli si sentiva nell’aria il profumo delle cipolle e dei manghi.
Comunque nei miei primi eroici 65 chilometri lo scooter ha tenuto bene anche all’ultima mezzora di strada di notte con trattori e biciclette contro mano. Mi trovo ora a Panipat, nello stato dell’Haryana, che si studia sui libri di storia per una celebre battaglia contro gli inglesi. La corrente va via ogni mezzora più o meno. “È colpa di Delhi che se la piglia tutta” mi spiega abbastanza irritato un ristoratore dopo avermi servito shish kebab di pollo e butter naan. Mah, mi piacerebbe scrivere di questa rivalità tra stati indiani. Invece domani dovrò scrivere dei gorkha e di Darjeeling, dove ero l’anno scorso e di cui non interessava nulla a nessuno. Da lá mi ricordo mi occupavo di Pakistan. Ma verrá mai il momento in cui riusciró a scrivere sui posti dove mi trovo e non essere perennemente dissociata nella dimensione spaziale?

BREAKING NEWS - E' arrivato il monsone!


Con circa tre settimane di anticipo oggi è arrivato il monsone a New Delhi. Un temporale all’alba e poi pioggerella costante ininterrotta da domenica uggiosa. Questo è il mio settimo monsone indiano e devo ammettere che ormai ho iniziato a capire i segni del suo arrivo. Senti come se il cielo ti schiacciasse, ti prende uno strano nervosismo e irritabilità, non è solo l’umidità appiccicaticcia che ti blocca il respiro, ma una sensazione soffocante, claustrofobica. Stanotte ho dormito con la porta aperta sul cortile. Mi sentivo schiacciata dalle mura, dalle case del quartiere e dall’intera città. Mi ricordo un po’ di anni fa, ero sempre a Delhi, sono corsa in strada per cercare da qualche parte la linea dell’orizzonte, come una via di fuga.
L’anno scorso invece quando è arrivato il monsone mi trovavo sul Gange, a Varanasi. Mi ricordo il cielo che si è oscurato, per qualche istante sembrava che l’intero pianeta trattenesse il respiro. Poi un leggero vento, già fresco, ha cominciato ad agitare il fuoco delle pire e i lembi delle vesti bianche delle famiglie in lutto. Pochi istanti un boato, il primo tuono. Il volto dei becchini, di solito assente, ha cominciato ad assumere un’espressione divertita. Fuggi fuggi di turisti sotto le tettoie dove si tiene la legna per le cremazioni. Sono rimasta sulla terrazza a lasciare che quel vento elettrico mi penetrasse. Che energia. Poi le prime gocce, piene di sabbia e cenere. Sempre più grosse. Lasciavano una grossa chiazza sulle pietre bollenti dei ghat. L’eccitazione era ormai palpabile tra le decine di becchini e bramini impegnati nella loro incessante e millenaria catena di montaggio della sepoltura. Disponi i ceppi, immergi il cadavere nel fiume, aggiungi altri ceppi, riprendi il corpo e adagialo sulla pira, ricoprilo di altri ceppi, accendi il fuoco, fai i rituali, sposta i ceppi mano mano che bruciano, riattizza il fuoco se si spegne…sempre così giorno e notte.
Quando si aprono le cateratte del cielo, un grido di gioia si è levato intorno alle pire. “Piove!!!!” hanno esultato con un boato da stadio. Liberandosi degli stracci che tengono intorno alla testa correvano felici sotto la pioggia fino a una casupola. Li vedevo accendersi i bidi, le sigarette indiane fatte a mano, ridendo come bambini. Penso anche ai milioni di indiani che oggi a Delhi hanno salutato allo stesso modo il nuovo monsone che quest’anno si prospetta abbondante. Un sollievo anche per l’economia, che al contrario di quanto si pensa non dipende dai computer di Bangalore, ma dal cielo…e da un buon raccolto.

Non è che forse il Taj Mahal è stato costruito dai marziani?


La scorsa settimana ho preso un treno e sono andata ad Agra, l’ex capitale del regno mughal e città del Taj Mahal. Il viaggio dura solo tre ore, ma è più che sufficiente a ricordarti che l’India non è esattamente quella che Armani o Louis Vuitton si aspettano di trovare, almeno per ora. Agra è sempre uguale, come quella descritta nel 1965 dallo scrittore indiano Ruskin Bond in un suo diario di viaggio. Sono andata a rileggere quel passo in cui si ferma a parlare con un bambino che è figlio di un giardiniere e che da quando è nato ogni giorno vede il celebre mausoleo. “Io lo vedo per la prima volta, tu sei molto fortunato” gli dice. E lui risponde: “Se tu vieni qui una volta o cento volte è lo stesso, non cambia”. E poi: “Mi piace vedere le persone che vengono qui. Loro sono sempre differenti”.
In effetti, anch’io che l’ho visto tante volte, non mi fa più lo stesso effetto. Però mi colpisce sempre la sua totale estraneità con il paesaggio circostante. Ancor di più ora, che i suoi marmi sono stati sbiancati e lucidati e hanno perso la patina del tempo. Sembra costruito appena ieri e non oltre 350 anni fa. Seduta sui gradini di una delle due moschee laterali , mentre il cielo diventava violaceo per l’arrivo dell’ennesima bufera di vento, ho pensato perfino che non poteva essere un’opera umana. E’ troppo perfetto anche per la cristallina astrazione islamica. Di sicuro è agli antipodi di tutto quello che è indiano o induista. E’ veramente l’opposto del caos colorato e chiassoso dei templi, delle divinità unte di burro e olio di cocco e delle immagini del kamasutra. E’ un edificio tombale, insomma, in un Paese, dove i cadaveri rientrano senza alcuna barriera marmorea nell’ecosistema naturale, come mi ricorda un crematorio che sorge a poche centinaia di metri sulle rive della Jamuna. Non è forse strano che non si conoscano neppure gli architetti? E questa leggenda degli scalpellini che sono stati poi mutilati, raccontata dalle guide turistiche, avrà pur un qualche elemento di verità! Qual è il suo mistero? Più lo guardavo e più mi sembrava completamente fuori luogo, come fosse stato calato dal cielo con un’astronave tipo film di Spielberg. Forse…un regalo (o stazione di spionaggio) dei marziani ? “Una lacrima di marmo ferma sulla guancia del tempo” l’ha definito il poeta Rabrindranath Tagore pensando al dolore eterno per la caducità umana. Mi è venuto in mente anche Pasolini, nel suo celebre “L’odore dell’India”, 1961, dove scriveva a proposito del mausoleo di Muntaz Mahal: “Un vero gelo. La poesia mussulmana, pratica e insieme antifigurativa, pragmatica e insieme antirealistica, si trova in India come in un mondo non suo. La cadaverica sensualità del paesaggio indiano regge come corpi estranei, nelle sue salgariane radure, i monumenti dei dominatori mussulmani. Chiusi nella loro astratta geometria funzionale, come prigioni ricamate”. Bello eh? Tanto che sui gradini di arenaria bollente mi sono perfino addormentata. Quando ho riaperto gli occhi si era levato un vento fortissimo e mi sembrava che la base del Taj Mahal con i suoi quattro minareti si stesse per sollevare…