Gli scaffali di Armani e l'India moderna


Ogni tanto mi chiedo se veramente l’India sia riuscita ad imboccare la strada del benessere e dello sviluppo che la porterà nei prossimi decenni a essere tra le prime potenze economiche mondiali. Gli economisti dicono che si tratta ormai di un processo ineluttabile. Per molti la svolta è iniziata nel 1991, anno di gravissima crisi finanziaria e politica, ma anche l’anno in cui sono iniziate le riforme suggerite da Manmohan Singh, all’epoca semplice consulente del governo. Per me che sono qui da sette anni ormai, la pagina è svoltata circa 4 anni fa quando l’India ha iniziato a correre al ritmo dell’8-9 per cento all’anno grazie alla crescita del settore terziario e manifatturiero. Ho assistito al ribaltamento di una percezione comune non solo da parte dell’Italia che ha scoperto o in certi casi ri-scoperto l’India, ma anche da parte degli indiani stessi. Tutti quelli che vengono qui per la prima volta dicono che in questo Paese si respira un’aria di ottimismo e entusiasmo. Sarà anche per la popolazione giovane, ma è soprattutto perchè esiste una nuova consapevolezza di “avercela fatta". L’ho avvertito molto bene, per esempio, circa due anni fa, quando è stata inaugurata la “linea gialla” della metropolitana, quella interamente sotterranea che attraversa la vecchia città dei moghul. Ho osservato i passeggeri seduti davanti a me, imbarazzati e compiaciuti nello stesso tempo, guardarsi intorno nelle carrozze nuove di zecca, con le insegne luminose e una voce soave che avvisava l’arrivo alle fermate in inglese e hindi. Mi sono accorta che qualcosa stava cambiando intorno a me. La stessa netta sensazione l’ho avuta in coda al check-in di Deccan Airways, la prima compagnia aerea privata low-cost. E poi a gennaio, nei giorni successivi il lancio della Tata Nano, la mini car da 2000 dollari che però non è ancora nei concessionari. Almeno a New Delhi e nelle metropoli, dove sono arrivati i soldi in grande quantità, la gente non ti chiede più cosa pensi dell’India. Non c’è più bisogno di avere il parere o l’approvazione di uno straniero. Le cose stanno cambiando in fretta, forse troppo. C’è stato nell’ultimo anno una rincorsa ai prezzi che non è assolutamente riflessa nei dati dell’inflazione che secondo il governo è sul 7-8%. Ci sono alcuni generi alimentari e medicine che sono aumentate del 20 o 30 per cento. Più che scarsità penso sia speculazione, che è inevitabile quando aumenta il potere di acquisto e l’economia si surriscalda. I pochi negozi moderni di generi alimentari sono presi d’assalto. Vicino a casa mia c’è un supermercato della catena Reliance Fresh, il colosso industriale indiano di Mukesh Ambani, l’ex benzinaio che ha creato un impero poi ereditato e diviso dai due figli. Alla sera il bancone della frutta e verdura è vuoto e se c’è un offerta tipo due per tre il traffico blocca mezzo quartiere. Mi piacerebbe sapere però se ad incrementare le vendite sono anche i venditori ambulanti che ogni mattina e sera attraversano le “colonie” urlando a squarciagola. Secondo Kamal Nath, il super ottimista e instancabile ministro del commercio, che ha scritto un libro “India’s Century” dove esalta l’imprenditorialità e “l’arte di arrangiarsi” (conosciuta come Juggad), gli indiani hanno un “vantaggio competitivo” sugli altri popoli una volta che si libera l’economia dai “lacci e lacciuoli” dello stato. Le multinazionali, se vogliono vendere, dovranno adeguarsi ai gusti locali e non il contrario. Se davvero sarà così, forse si potrà evitare il dilagare di stili di vita tipici del consumismo occidentale che hanno stravolto i Paese del Sud est asiatico. Gli orrendi mall che stanno sorgendo in periferia in realtà fanno pensare il contrario. L’altro giorno, in uno di questi mostri di cemento sorti dal nulla nella zona di Vasant Kunj per volontà del gruppo DLF, i palazzinari di Gurgaon, ho incontrato un paio di operai italiani addetti a montare le scaffalature per i nuovi negozi di Giorgio Armani. Erano abbastanza delusi in generale dall’India. Erano erano stati letteralmente spennati nei ristoranti e dai tassisti. Erano poi scioccati dai poveri indiani che accovacciati a terra pulivano i pavimenti della boutique con un minuscolo scopino e poi con uno straccetto lurido smacchiavano i pavimenti. Certo non è il concetto di pulizia a cui siamo abituati. “Sono quelli che abitano nelle baracche dietro il mall, penso siano analfabeti, forse anche fuori casta e sono pagati alla giornata” ho detto. Loro mi hanno dato ragione. Glielo avevano già chiesto. Prendevano circa 100 rupie al giorno a spolverare i costosissimi e delicatissimi scaffali con inserti in pelle della boutique Armani. Penso che solo con il costo degli arredi si possa sistemare per la vita un’intera famiglia o dare acqua e elettricità a un villaggio o costruire una scuola. Lo so, probabilmente capitava così anche per i lavapiatti italiani che sono immigrati negli Stati Uniti all’inizio del secolo. Ma onestamente penso che nel duemila e nell’India nel libro di Kamal Nath, questo stato di coose non sia sostenibile dal punto di vista etico ma anche politico perchè è inevitabile che prima o poi si ribellino. Chissà cosa avrebbe detto poi Nehru a vedere i “nipoti della mezzanotte” chini a lustrare i pavimenti di Armani!

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