Approfittando della prima giornata di caldo dopo settimane di brezza himalayana, sono andata oggi ad un mercatino vicino a casa mia sulla Ring Road nei pressi del grande ospedale di Safdarjung Enclave. Non è un posto per lo shopping, diciamo tipo suq arabo, come il mercato di Sarojini, dove si trovano le firme della moda taroccate e che è proprio lì vicino. Ma è una sorta di centro commerciale ante litteram dove puoi trovare tutto o quasi tutto. Per esempio io ho cambiato l’olio allo scooter, poi ho comprato un copri-telefonino, ho fatto la ceretta alle gambe e per finire ho fatto mettere una toppa a dei vecchi jeans di mia figlia. Ecco, è sulla toppa che forse gli economisti potrebbero ispirarsi per capire come è possibile, per esempio, che con un bikini usato di Nicole Kidman siano riusciti a comprare ben nove vacche per altrettante famiglie indiane povere. C’è evidentemente qualcosa che non funziona.
Gli indiani sono accusati spesso di essere confusionari e approssimativi, eccetto quando programmano i computer, dove paradossalmente è richiesta proprio una precisione matematica. Nella “sartoria” dove sono stata lavoravano quattro persone, il “titolare” che stava tagliando la stoffa per delle camicie, un giovane aiutante, forse suo figlio e due impiegati chini su vecchie macchine da cucire a pedali, forse un modello ancora precedente a quello che ho visto usare da mia nonna. Dopo aver visionato i jeans strappati al ginocchio e la pezza da inserire, il sarto ha ordinato a uno dei due “cucitori” di eseguire il rappezzo e mi ha fatto sedere su uno sgabello lì vicino. Il ragazzo era magrissimo, forse un immigrato del Tamil Nadu perché era molto scuro di pelle. Non penso sapesse l’inglese e probabilmente nemmeno l’hindi. Mi ha colpito l’attenzione estrema con cui maneggiava il tessuto e l’abilità nello scucire i pantaloni su un lato per far passare il tessuto sotto l’ago e cucire tutt’intorno la pezza. Era concentratissimo. L’operazione è durata un quarto d’ora ed è stata a regola d’arte. Perfetta. Ha sollevato la testa solo quando ha finito, ma appena un istante, poi ha cambiato il filo nella spoletta e ha ripreso il lavoro interrotto prima. Il “padrone” mi ha fatto notare un orrendo rammendo sul didietro fatto da me un po’ di tempo fa e poi mi ha chiesto 20 rupie (35 centesimi di euro circa). Me ne sono andata con i miei jeans rattoppati e la sensazione di aver assistito a qualcosa di straordinario. Boh, non saprei. Forse perché la mia generazione di baby boomers non ha mai imparato a usare la macchina da cucire o forse perché in Italia i “sarti del quartiere” non c’erano più quando sono nata. Oggi i sarti italiani non mettono le pezze. Ma gli indiani sì, e sono anche bravi.
Gli indiani sono accusati spesso di essere confusionari e approssimativi, eccetto quando programmano i computer, dove paradossalmente è richiesta proprio una precisione matematica. Nella “sartoria” dove sono stata lavoravano quattro persone, il “titolare” che stava tagliando la stoffa per delle camicie, un giovane aiutante, forse suo figlio e due impiegati chini su vecchie macchine da cucire a pedali, forse un modello ancora precedente a quello che ho visto usare da mia nonna. Dopo aver visionato i jeans strappati al ginocchio e la pezza da inserire, il sarto ha ordinato a uno dei due “cucitori” di eseguire il rappezzo e mi ha fatto sedere su uno sgabello lì vicino. Il ragazzo era magrissimo, forse un immigrato del Tamil Nadu perché era molto scuro di pelle. Non penso sapesse l’inglese e probabilmente nemmeno l’hindi. Mi ha colpito l’attenzione estrema con cui maneggiava il tessuto e l’abilità nello scucire i pantaloni su un lato per far passare il tessuto sotto l’ago e cucire tutt’intorno la pezza. Era concentratissimo. L’operazione è durata un quarto d’ora ed è stata a regola d’arte. Perfetta. Ha sollevato la testa solo quando ha finito, ma appena un istante, poi ha cambiato il filo nella spoletta e ha ripreso il lavoro interrotto prima. Il “padrone” mi ha fatto notare un orrendo rammendo sul didietro fatto da me un po’ di tempo fa e poi mi ha chiesto 20 rupie (35 centesimi di euro circa). Me ne sono andata con i miei jeans rattoppati e la sensazione di aver assistito a qualcosa di straordinario. Boh, non saprei. Forse perché la mia generazione di baby boomers non ha mai imparato a usare la macchina da cucire o forse perché in Italia i “sarti del quartiere” non c’erano più quando sono nata. Oggi i sarti italiani non mettono le pezze. Ma gli indiani sì, e sono anche bravi.