Pannella e i sigari all’aroma di grappa

Il comunicato era: “Marco Pannella, deputato europeo, e Matteo Mecacci, Deputato, (con la maiuscola, ndr) incontreranno i corrispondenti italiani a New Delhi sabato 27 dicembre alle 10.30 presso l’hotel Radisson..”. Io sono arrivata alle 11, perché sono rimasta senza benzina con lo scooter e poi ho dovuto lottare con la sicurezza paranoica dell’hotel che dopo l’attacco di Mumbai crede che tutti i clienti nascondano bombe a mano e AK47 nelle borsette. Ma non penso ci fossero stati altri giornalisti prima di me. Dei miei quattro colleghi qui in India, uno è in Bangladesh e gli altri non lo so, forse in Italia per Natale. Quindi ho avuto il piacere di fare una chiacchierata a tu per tu con Pannella, il grande vecchio della politica italiana e instancabile difensore della non violenza e dei diritti delle minoranze e degli oppressi. Se non avesse i capelli bianchi lunghi e non fumasse i toscani alla grappa, me lo potrei immaginare davvero come un Mahatma versione globe trotter che va in giro per il mondo a diffondere il satyagraha. E’ un’icona vivente e vedermelo nella patria di Gandhi - anche se era qui solo per andare dai tibetani a Dharamsala - mi ha fatto un certo effetto. Ho perfino dimenticato di scattargli una foto, mentre il registratore è rimasto spento sul tavolino della piscina dove è uscito a fumare sfidando la nuova legge indiana antifumo introdotta il 2 ottobre, guarda caso compleanno del Mahatma.
La prima cosa che mi ha detto è “ma lo sa che noi siamo rimasti il partito più vecchio in Italia?”. Sono almeno 13 anni che non seguo più la politica italiana, ho fatto un rapido excursus storico, Democrazia Cristiana, PRI, PLI, PSI …è vero, dove sono finiti? Poi abbiamo parlato praticamente a ruota libera, passando dai Montagnard del Vietnam, agli Iuguri che sono tesserati radicali, attraverso un parallelismo tra Manifesto di Ventotene di Spinelli e la “via di mezzo” del Dalai Lama, per finire al libro “Il gusto di essere felici” di Matthieu Ricard e alle attrazioni pedofile di cui sono stata accusata quando ho detto che il Dalai Lama a volte mi sembra un fanciullo gioioso. Incredibilmente la conversazione finisce dove era iniziata, la longevità dei Radicali. “Ci hanno suonato la campana a morto molte volte, ma poi siamo sempre andati ai funerali del campanaro” proclama.
Poi prima di congedarsi mi manda una puffata di sigaro. “Non hai sentito che gusto ha?” mi chiede meravigliato della mia evidente ignoranza in materia. “E’ un toscano al distillato di grappa” risponde prontamente il suo giovane collaboratore. Imbarazzata tento una battuta spiritosa: “Dopo tanti anni in India ormai posso solo riconoscere le fragranze dell’incenso e non perché frequento assiduamente le chiese …” dico mentre lo accompagno all’uscita. Sorride e poi mi saluta come una vecchia amica con due baci sulle guance.

Taj Hotel, vernice fresca e puzza di bruciato


Dopo tre settimane sono tornata sul luogo del delitto a Colaba. Il lungomare di fronte al Taj Mahal Hotel è ancora transennato. I finestroni al primo piano della facciata veneziana sono stati chiusi con compensato dipinto di beige. Cosí sembra ancora piú finto, uno scenario di cartapesta tipo Disneyland. Le strade laterali sono bloccate dal servizio di sicurezza privato che abbastanza rudemente tiene alla larga i curiosi. Ci passano solo le auto con un pass e i pedoni con una prenotazione al ristorante. Spacciandomi per una turista e coinvolgendo come mio cavaliere un simpatico e distinto ebreo francese, sono riuscita a entrare ieri sera verso le 22 nella “tower”, che è la parte moderna del Taj costruita di fianco all’edificio del 1903.
La hall profumava di fresco, qui si è tenuto il ricevimento domenica con qualche centinaio di “belli e famosi” di Mumbai accolti da un Ratan Tata in versione “non-ci faremo-mettere-al-tappeto”. Ho visto la lapide con i 31 nomi delle vittime esposta nella hall accanto ad una scultura di bronzo di un albero. Pare sia l’unico pezzo della collezione di arte dell’hotel non danneggiata dal rogo scoppiato al quinto piano sotto la cupola. Nel pomeriggio fuori ho visto gli operai che buttavano fuori sacchi di macerie annerite e scheletri di tavoli e sedie. Deve essere successo di tutto là dentro nelle 60 ore dell’assedio. Dalla tower si passa all’ala storica attraverso un corridoio dove ci sono le boutique di moda. Lí si sente ancora un odore acre, di bruciato, misto alla vernice fresca e alla colla. Alcuni negozi sono chiusi per lavori, ma la pasticceria in fondo alla galleria è rimasta intatta. Ho cercato qualche segno dell’attacco, anche solo un graffio, ma è stato ripulito tutto con cura. Da una portafinestra chiusa si scorge l’atrio dello storico hotel e in particolare il busto di Jamsedji Tata, il fondatore della dinastia industriale. A farmelo notare è un signore indiano che è insieme alla nipotina, vestita da prima comunione, e che mi ricorda anche l’aneddoto legato al Taj. Siccome Jamsedji non poteva entrare negli hotel di Mumbai riservati ai ‘bianchi’, allora decise di costruirsene uno. “Ed eccolo qui” mi fa segno con ampio gesto delle braccia.
Fingendo di voler andare a cena, sono andata poi a curiosare nel ristorante-caffetteria Shamiana, vicino all’ingresso e nello sciccosissimo libanese Suq all’ultimo piano dove c’è un vista mozzafiato. I tavoli erano occupati a metà. Il giorno prima mi avevano detto che era tutto prenotato per giorni. No non era vero.
Una volta fuori davanti al Gateway of India, piú tetro che mai per via di lavori di restauro, un altro cliente, vero penso - non finto come me - un sikh con la famiglia, mi fa notare che “si sentono le onde del mare”. Il piazzale è deserto e silenzioso. E’anche buio. Mi chiedo perché mai hanno spento i fari gialli che ieri durante la cerimonia di riapertura illuminavano la facciata dell’ hotel. Forse per risparmiare? Riaprire il palazzo costerá a Ratan Tata una barca di soldi e il suo gruppo è giá pesantemente indebitato per via dell’acquisizione della Jaguar, un altro simbolo di prestigio e ricchezza che lotta per la sopravvivenza.

Mumbai, quando le teste di cuoio arrivano con il bus “Marol Depot”


Non sono in grado di dire se il blitz delle teste di cuoio a Mumbai sia stato un successo. Non lo è stato di sicuro per gli ostaggi israeliani e per i genitori del piccolo Moshe di 2 anni rimasto orfano. Ma forse lo è stato per i sette italiani usciti vivi e per la moglie e bambina di Manuele, il cuoco dell’Oberoi diventato un eroe, suo malgrado. Voglio solo raccontare un episodio che la dice lunga sulla scarsità dei mezzi della polizia e dell’esercito indiani. Non è colpa loro, certo, anzi molti ci hanno rimesso le penne. Sabato mattina decine di teste di cuoio della National Security Guard (NSG), uno dei reparti d’elite dell’esercito detti “Energy” o anche “Black Cats” sono arrivati di supporto nell’operazione “Cyclone”, quella per la “riconquista” del Taj Mahal, avvenuta dopo 60 ore quando hanno fatto fuori gli ultimi tre “cattivi” del commando pachistano arrivato dal mare. Detto così sembrava la trama di un film d’azione, e pare che un regista di Bollywood ci abbia già pensato. Ma c’è un retroscena. Ero con le decine di fotografi e cameramen quando i Black Cats, con la loro bandana nera in testa, sono arrivati a bordo di…..bus di linea urbani. Ebbene sì, una ventina di bus rossi, alcuni diretti a “Marol Depot” e con le scritte pubblicitarie lungo i fianchi, tipo “In the cinema on 20th November” oppure “Absolute Sensation” (riferito a una moto Honda) e via dicendo. Dai finestrini si vedeva che aprivano delle vecchie casse di metallo dove c’erano granate, revolver e coltelli. Ognuno prendeva un kit di armi, lo sistemava nelle tasche interne sotto il giubbotto antiproiettile e poi scendeva dal bus tra le telecamere e fotografi. Qualcuno ha tirato fuori un microfono per un’intervista in diretta facendo domande del genere “Sono stati ammazzati i terroristi?”, “Quanti ne hai uccisi?”, “Dove pensate di entrare?”. Mi immaginavo gli attentatori dentro l’hotel che sui loro palmari o molto più semplicemente nelle televisioni vedevano la scena…

Rahul, la fatica di chiamarsi Gandhi


Oggi sono andata a vedere un comizio di Rahul “baba”, come chiamano qui il figlio di Sonia Gandhi, segretario generale del Congresso ed erede designato della storica dinastia che ha dominato la storia dell’India. Mi piace questo nomignolo, “baba”, che è quello che le mamme usano affettuosamente con i figli maschi. Rahul, che ha 37 anni, scapolone d’oro, è cresciuto a Janpath 10 con una nonna, Indira, prima e poi il padre Rajiv, entrambi assassinati. La politica, ma anche il terrore, ce l’ha nel sangue. Almeno così dovrebbe essere. Invece, secondo me, Rahul fa una fatica bestiale a ricoprire il suo ruolo. E si vede anche. Oggi l’ho osservato mentre con ore di ritardo alle 17 è arrivato al suo primo comizio elettorale a Delhi, in un prato in mezzo alle bidonville a Tahilpur Village, gli immensi rioni popolari nati al di la del fiume Jamuna. La gente che vive qui è stata “spostata”, per usare un eufemismo, dal centro della capitale per far posto ai palazzi del governo. Pur essendo una roccaforte del Congresso non c’era tanta ressa. Al massimo 2 mila persone che sono state strategicamente ammassate davanti alle telecamere per dare un effetto di “folla assiepata”. Una vecchia tattica usata dai politici e dittatori di tutto il mondo. Mi aspettavo decisamente più gente. Ho saputo poi che molti erano stati pagati. “Ma certo che ricevono denaro!” ha detto una collega di CNN-IBN che stremata dall’attesa di 4 ore si è addirittura addormentata per qualche minuto durante il comizio. Rahul è arrivato su un fuoristrada coperto di fiori. Appena sceso è stato omaggiato e ossequiato da una una fila di venti politici locali, tra cui la chief minister Shila Dikshit, che governa lo stato di New Delhi da dieci anni. Con un passo deciso è andato in un tendone seguito da un nugolo di guardie del corpo in giacca nera e occhiali da sole in stile James Bond, non le solite casacche cachi che circondano i vip indiani. Poi è montato sul palco e si è levato gli occhiali da vista, forse per pulirli o forse perché c’era qualche problema. Ho visto la signora Dikshit, che con la premura di una mamma, lo ha aiutato. Il suo discorso, di una quindicina di minuti, era su un paio di pagine, ma lui è andato a braccio, facendo delle pause ad effetto. Di sicuro ha preso qualche lezione. I miei colleghi indiani hanno detto che è stato un “bel discorso”, ma che ha ripetuto quello già detto ieri a Bhopal dove ha attaccato il Bjp sull’agenda antipovertà. Anche a me non è sembrato nulla di originale, ma forse è quello che la gente ci si aspetta. E comunque raramente i miei colleghi indiani criticano i loro leader…mentre parlava Rahul aveva alle spalle una gigantografia della madre da una parte, mentre sullo sfondo campeggiava la siluette di un enorme ospedale pubblico dedicato a Rajiv Gandhi, praticamente l’unico edificio moderno della zona. Segno tangibile dello “sviluppo” promesso dal Congresso. Davanti a lui aveva delle gigantografie di Indira, del padre Rajiv, ancora della madre e poi più lontano di Manmohan Singh, il premier scelto da Sonia. Prima di andare via Rahul ha stretto un po’ di mani dietro le transenne tra le urla dei sostenitori. Nessuno dei giornalisti ha osato lanciare delle domande. Quando ho chiesto se non erano interessati a incontrarlo per una chiacchierata, mi hanno lanciato uno sguardo compassionevole, tipo ti-perdoniamo-la-cazzata-perchè-sei-straniera-e-non-capisci-nulla-dell'India. "Non lo si può incontrare - mi ha detto pazientemente il collega al mio fianco - ma puoi citare il suo discorso...".

Quelle dolci nebbie autunnali che avvolgono Delhi


Da ormai settimane New Delhi è avvolta da una coltre di foschia che i raggi solari non riescono a penetrare nemmeno nelle ore più calde del giorno. Alcuni dicono che sia un fenomeno stagionale, le famose nebbie autunnali di Delhi appunto…altri invece lo chiamano con il suo nome “smog”, che se ben ricordo è un neologismo londinese derivante da smoke e fog. Io sarei più propensa a pensare a questa ultima spiegazione visto il traffico folle di questi giorni, causato da migliaia di matrimoni, celebrazioni di vari santi e divinità e l’abnorme arrivo di diverse personalità da Henry Kissinger fino a Hosni Mubarak, passando per Bill Gates, l’ex compagno maoista Prachanda e il premier pachistano Asif Ali Zardari, vedovo di Benazir Bhutto. Tutti attirati dalla romantica bruma di Delhi.
L’odore dell’India sta decisamente cambiando. Le mie narici ne sanno qualcosa quando con lo scooter attraverso il famigerato tratto della tangenziale a South Extension, aggravato dai lavori della metropolitana, l’unica ancora di salvezza per chi riuscirà a sopravvivere in questi anni.
Dopo giorni di “nebbia” (senza rugiada perché siamo nella stagione secca) il Times of India è stato il primo a rompere il silenzio una settimana fa con un articolo in cui diceva che “le condizioni dell’aria erano ritornate a quelle dell’era pre metano”, ovvero a prima del 2002 quando a suon di sentenze giudiziarie il governo locale ha obbligato i taxi, autorisciò e mezzi pubblici a convertirsi al gas naturale. L’inquinamento è calato da allora, soprattutto quello del CO2. Ma con un ritmo di mille immatricolazioni di veicoli al giorno, l’emergere di nuovi yuppies con il culo sulle Mercedes, il moltiplicarsi dei cantieri e anche degli aerei che volano sopra la mia testa, beh, il cielo non ce la fa più di nuovo. Il problema sono ora le particelle inquinanti, ovvero polvere e pulviscoli vari mischiati con altri non precisati veleni per i polmoni. Il problema è che non esistono dei sistemi di misurazione, le famose centraline incubo di Milano, e quindi ognuno può dire quello che vuole. L’Unep (United Nations Environmental Programme), in uno dei tanti rapporti che avranno richiesto la distruzione di chissà quanti ettari di foresta, dice che la colpa è della “nube marrone” che vaga sopra sopra l’Asia. Non siamo solo noi a Delhi a soffrire della coltre fumosa, che tra l’altro toglie anche luminosità e caldo - quindi “compensando” il riscaldamento terrestre - ma anche altre metropoli come Mumbai, Karachi, Teheran e Pechino, dove secondo me ci sono ancora degli atleti delle Olimpiadi persi nella “nebbia”…

Obama, perché non assumi l’elettricista del Khan Market?

Poco dopo la notizia della vittoria di Barack Hussein Obama, sono andata al Khan Market, uno dei posti preferiti dagli stranieri, per comprare una lampadina. Il negozietto di materiale elettrico è ancora di quelli vecchio stampo, sopravissuto all’invasione delle firme occidentali e ristoranti alla moda. Mi chiedo fino a quando potrà resistere visto che in questo mercato gli affitti commerciali sono alle stelle. L’occhialuto proprietario, era come al solito nascosto dietro al bancone ricoperto di varie cianfrusaglie. Stava ascoltando le notizie da una vecchia radio a transistor. Non ho capito tutto perché era in hindi e gracchiava un casino, ma mi è sembrato che stesse parlando del messaggio di congratulazioni del primo ministro Singh per il successo di Obama. Dopo aver finito di ascoltare, mentre mi stava dando il resto, mi lancia uno sguardo interrogativo, come per dire, lo-sai-chi-ha-vinto?. Visto che raramente è loquace, io ne approfitto subito e lancio: “Allora ha vinto Obama, sei contento?”. Mi guarda perplesso e poi ciondola la testa… all’indiana. Parto all’attacco: “Penso però per l’India non sia poi così una bella notizia…o no?”. Silenzio. Lancio un altro affondo: “Forse McCain era meglio vero? Almeno lui avrebbe seguito la politica di Bush, invece con Obama cambia tutto e per l’India è un’incognita…che ne dici pensi davvero sia una buona cosa per il tuo Paese?”. Pausa di pochi secondi e poi una risposta che mi ha steso: “If you are good with somebody, he will be good with you”. Se tu sei buono con qualcuno, questi sarà buono con te. Non so davvero da dove sia uscita questa frase, probabilmente da qualche saggio indiano, magari Osho, ma potrebbe anche essere il Mahatma. Certo che vale più di tonnellate di analisi e commenti politici. Forse Obama dovrebbe reclutare anche l’elettricista del Khan Market nella sua squadra.

Mezzo miliardo di cessi o di telefonini?


Leggo che secondo un rapporto del centro studi Informa Telecoms & Media, entro il settembre 2010 in India ci saranno 500 milioni di telefonini. Una previsione che non so su cosa sia basata e soprattutto se tenga conto dell’attuale recessione mondiale. Mezzo miliardo di telefonini. Non penso ci siano mezzo miliardo di cessi in questo Paese dove la maggior parte della gente fa i bisogni dove capita. Non penso neppure ci siano mezzo miliardo di rubinetti da cui sgorga acqua pulita o mezzo miliardo di banchi di scuola. A Delhi di recente è ritornata la poliomelite, orrenda malattia sconfitta dai vaccini ormai in tutto il mondo, eccetto che in India, Pakistan, Afghanistan e Nigeria. Sempre qui a Delhi in questi giorni che precedono il Diwali, la festa delle luci, nelle strade c’è un’emergenza traffico che è paurosa per gli effetti sulla salute pubblica e sull’ambiente. Ma i telefonini squillano per la gioia delle compagnie telefoniche e anche del governo che adesso sta vendendo le licenze per il G3 che si sostituirà ai vecchi cellulari quando anche qui il mercato sarà saturo. Continuo a stupirmi di quanto i telefonini siano riusciti a penetrare l’India nelle sue pieghe più profonde. Nelle campagne si usa ancora l’aratro trainato dai buoi, le donne fanno chilometri per prendere l’acqua e non ci sono scuole, ma le torri dei ripetitori svettano come moderni totem al dio delle telecomunicazioni. Il servizio pubblico di telefonia fissa, ammesso che ci sia mai stata o abbia mai funzionato, sta per scomparire.
D’altronde questo è un Paese che pochi giorni fa ha lanciato la sua prima missione lunare dalla base spaziale dell’isola di Shriharikota. C’è una bellissima foto d’epoca di Henri Cartier-Bresson del 1966 che ritrae una bicicletta che trasporta un pezzo del primo razzo costruito in Kerala probabilmente dai padri degli scienziati indiani che oggi hanno mandato la sonda Chandrayaan in orbita a scattare foto ravvicinate della luna.
Nel suo coacervo di contraddizioni l’India continua a stupirci e anche a indignarci. Era successo così anche nel 1974 con la bomba atomica che Indira Gandhi aveva fatto scoppiare nel deserto di Pokaran, dove molto probabilmente, c’erano dei villaggi in cui si moriva di fame. Oggi le carestie non ci sono più in India, per fortuna, ma ci sono più poveri. La crescita economica non è una certezza, eccetto che per gli economisti, ma la crescita demografica lo è invece. A meno che non troviamo un modo per partorire telefonini.

Ultime dalle passerelle di Delhi



Si dice che quando la borsa sale le gonne si accorciano e viceversa. In una settimana in cui la borsa di Mumbai ha bruciato i risparmi di milioni di azionisti neofiti, sulle passerelle di Delhi dominavano le minigonne.




Gurgaon, il deserto fuori e dentro i “mall”


Sabato scorso, dopo che il direttore del Fondo Monetario Internazionale ha scoperto che il sistema finanziario mondiale si trovava “sull’orlo di un collasso sistemico” ho preso lo scooter e sono andata a Gurgaon, la città satellite alla periferia di Delhi che dovrebbe diventare una sorta di Dubai indiana. Per ora l’unica similitudine è che sorge nel deserto. A parte alcuni striminziti giardini di palazzi signorili, il resto è una gigantesca colata di cemento punteggiata di tendopoli e mega cartelloni pubblicitari di marche di moda.
Folate di vento caldissimo sollevavano nuvole di polvere e sabbia rendendo il paesaggio ancor più surreale. Davanti ai “mall” c’erano decine di risciò che si facevano largo tra imperturbabili vacche. La vecchia India rimane sullo sfondo di quella nuova. Vedendomi ferma a fotografare un grosso bovino che si stagliava su una pubblicità del Sahara Mall, un tizio con una camicia elegante mi ha apostrofato con stizza: “Ma cosa fotografi? Non vedi che qui non c’è nulla!”. Ho tirato dritto seguendo il serpentone della futura metropolitana che taglia in due la strada tipo lo sky train di Bangkok e sono finita in un nuovo centro commerciale, mai visto prima, che si chiama “Gurgaon Central”. Alcuni operai stavano mettendo delle luminarie sulla scritta, forse per la prossima festa di Diwali. Al piano terra c’erano profumi, bigiotteria, borse e un po’ di gadget elettronici, al primo piano l’abbigliamento maschile, al terzo quello femminile e al quarto un supermercato alimentare dove c’erano le stesse cose che trovi nel negozietto di quartiere, solo che erano ben disposte in fila su scaffali lucidi e puliti. Ho comprato due bottiglie di Coca Cola Diet che erano scontate del 30%. Penso di essere stata la sola cliente. I miei passi venivano scrutati da decine di commessi e appena mi fermavo davanti a un articolo subito uno si accostava al mio fianco per assistermi nella scelta. A un certo punto ho avuto un po’ di vergogna perché sapevo che li avrei lasciati a bocca asciutta. Sono uscita cercando di evitare gli sguardi supplicanti dietro la fila delle casse. Con un certo imbarazzo ho sorriso al gruppo di guardie fuori che mi hanno spalancato le porte manco avessi delle borsate di roba.
Da lì, dopo un paio di altre foto a bovini, mendicanti e operai che si insaponavano contenti davanti ai futuristici grattacieli di vetrocemento, sono passata all’Ambience Mall, quello più grande costruito dal gruppo DLF, i “palazzinari” di Gurgaon, che vanta un chilometro di negozi per piano. Per handicappati e anziani hanno messo delle macchinette elettriche tipo quelle dei campi da golf. C’era decisamente più gente, soprattutto bambini che si divertivano come matti nella sala giochi e nel salto con l’elastico. Ho comprato in un posto molto all’americana un “doughnut” ripieno di cioccolata, ma dopo un paio di morsi mi sono accorta che dentro non c’era nulla. Mi sono lamentata e dopo pochi istanti è comparso il manager che si è scusato. “A volte capita” mi ha detto e me ne ha regalato un altro questa volta ripieno.
Ma a parte la zona “food”, anche qui nei negozi c’erano solo i commessi im piedi dietro le vetrine con uno sguardo implorante.
Da Reliance Digital, grande magazzino di hi-fi e elettronica, del colosso industriale di Mukesh Ambani, il più ricco dell’India che si è lanciato nel business dei supermercati, ho incontrato la portavoce del gruppo, Shalini Kumar, che stava cercando un paio di speaker. Dal suo tono ho capito che le cose non stavano andando molto bene, ma non solo a causa del “collasso sistemico” denunciato dal FMI. Non ci sono (ancora) abbastanza consumatori per quel tipo di negozi e di mercanzie che costano quanto metà stipendio di un impiegato indiano. Basta guardare fuori dai “mall” e osservare la gente per strada per capire che c’è qualcosa di sbagliato. Il tipo di clientela non corrisponde assolutamente al tipo di negozi. Quanto potrà durare?

Bicicletta selvaggia a Connaught Place


E’ passato del tutto inosservato il primo Delhi Critical Mass Cycling Event (http://en.wikipedia.org/wiki/Critical_Mass), organizzato da un intrepido gruppo di ciclisti che si illudevano forse di essere a New York o Chicago, dove questo genere di proteste ecologiche attirano migliaia di persone. Se non fosse perché sono convinta che qualcosa bisogna pur fare per salvare le nostre città, mi sarei sentita veramente patetica. E anche un po’ irresponsabile perché ho pure coinvolto mia figlia mettendo a repentaglio la sua incolumità fisica. Manco a dirlo era l’unica bambina straniera. C’era solo un altro suo coetaneo indiano. Lo so che quelli che di solito preferiscono viaggiare con fuoristrada giganteschi, che se solo potessero ci mettono i rostri alle ruote, saranno inorriditi. A New Delhi in bici!!! Ebbene sì, in bici, tre volte, TRE, il giro di Connaught Place dalle sei alle sette di venerdì sera. Altro che avventure estreme. Peccato che eravamo solo una cinquantina di intrepidi. Ma il serpentone a pedali che formavamo era sufficiente a perturbare il traffico, non a bloccarlo, ma sicuramente a farli incazzare per bene. Lascio immaginare le clacsonate a spiano, le sgommate, gli improperi degli automobilisti e anche, ahimé, dei motociclisti (categoria di cui faccio parte). Nonostante i cartelli improvvisati e attaccati con il nastro adesivo al manubrio, tipo “This Is Also My Road” o “Burn Fat Not Fuel” e lo scampanellio continuo, penso che pochi abbiano capito perché una cinquantina di pazzi furiosi, alcuni bardati come Pantani, avevano deciso di uscire in bici di venerdi sera. In India la bicicletta è sinonimo di povertà, non di ecologia.
Non ho visto nemmeno un sorriso di solidarietà nel traffico, solo sguardi cattivi o assenti come quelli degli autisti, bestie da soma a motore. Un paio di volte qualcuno di noi, con le bici più veloci, che si era staccato dal gruppo, ha rischiato di essere stirato sotto. Meno male che un paio di organizzatori avevano una paletta luminosa e cercavano di fermare l’orda rombante della rotatoria infernale di Connaught Place. Il traguardo era India Gate, purtroppo non ci sono arrivata perché mi hanno chiamato dal Giornale e dovevo pedalare fino a casa per fare un pezzo. Non so se ci sono mai arrivati…a un certo punto mi è sembrato che il corteo si fosse rimpicciolito. Prima mi era sembrato di vedere anche due bambini biondi con un monopattino, ma forse era una visione provocata dall’asfissia da CO2. Per favore facciamo qualcosa per rendere vivibili le nostre città.

Quando gli operai prendono a martellate il padrone


La vicenda del povero direttore della fabbrica della Graziano Trasmissioni a Greater Noida pestato a morte dai suoi operai mi ha fatto venire in mente il film Barah Aana che ho visto in anteprima a Mumbai. Racconta di un portinaio, di un autista e di un cameriere che si ribellano contro i loro “padroni” e gliela fanno pagare. Un tema nuovo per l’India dove più o meno il sistema castale ha da sempre permesso gigantesche sperequazioni sociali e dove non esiste neppure un proletariato industriale.
Ieri a mezzogiorno, quando 200 operai armati di bastoni e spranghe hanno marciato contro la fabbrica italiana, si è forse aperta una nuova era di rivendicazioni sociali in India dove a prevalere non è più il pacifismo gandhiano, ma una violenza brutale che in nessun modo è giustificabile. La scena mi ricorda chissà perché il celebre Quarto Stato di Giuseppe Pellizza da Volpedo che tra l’altro è piemontese come anche la Graziano. Alcuni imprenditori che ho intervistato oggi hanno liquidato l’incidente come una “degenerazione” di una vertenza sindacale che si protraeva ormai da mesi con picchettaggi e scioperi davanti allo stabilimento. Chiaramente gli operai volevano ritornare a lavorare. Non ho ben capito perché erano stati licenziati. Secondo la ditta italiana, si erano “comportati male”. Certo di lavativi ce ne sono anche qui, ma mi sembra strano che una fabbrica mandi via un terzo della sua mano d’opera. I contratti in India esistono ma sono più flessibili, c’è il concetto di minimo sindacale, ma si può licenziare in tronco o quasi. Anche perché se no qual è la convenienza per chi viene a investire qui? E proprio qui il punto. E’ inutile nascondersi sotto una foglia di fico. La Graziano è venuta in India perché qui costa di meno fare i suoi cambi per i motori. I salari sono dieci volte inferiori a quelli europei. Certo, il costo della vita è più basso, anche se l’inflazione nell’ultimo anno ha eroso il potere di acquisto delle famiglie. Ma le aspettative e i sogni della gente sono ormai uguali a Mumbai come a Milano.
Delhi sta diventando una metropoli moderna, piena di negozi luccicanti e lussuosi ristoranti. E’ stato aperto di recente il concessionario della Rolls Royce. I nuovi centri commerciali sono diventati i posti più frequentati dai giovani il finesettimana che li vedono come un paese del Bengodi dove tutto è possibile. Basta avere i soldi. Non dico nulla di nuovo: il consumismo fa leva sui desideri della gente ed è anche bello se tutto funziona. Ovvero finché il direttore della fabbrica in cui lavori, un giorno, non ti dica che sei licenziato.

Bombe a Delhi, la tragicommedia del “bomb defuser”


Ieri sera ero a Connaught Place sul posto dove è esplosa una delle cinque bombe. Il bel giardino nel centro della grande piazza circolare, inaugurato un anno fa e battezzato un po’ pomposamente Central Park, era stato chiuso. Gruppi di poliziotti con i cani stavano rovistano nei cestini della spazzatura. Una delle bombe, fatte in casa con nitrato di ammonio e bilie di ferro, era stata messa in uno dei nuovi cassonetti di plastica verde che solo da poco adornano piazze e strade del sud di Delhi. A differenza degli altri attentati nei mercati di Karol Bagh e GK1, qui non c’è stata alcuna vittima. Il giardino era affollato alle sei del pomeriggio di sabato, ma evidentemente lo scoppio è stato molto debole.
Quando sono arrivata erano passate due ore e la piazza era deserta e silenziosa. Le troupe televisive erano ammassate davanti a uno dei cancelli di ingresso del giardino. C’era ancora un testimone, un ragazzo con la camicia e i jeans inzuppati di sangue, che raccontava di come ha soccorso i feriti con la sua auto.
Mi ricordo delle scene degli attentati nei mercati degli ortodossi a Gerusalemme. La polizia trincerava un’area di un raggio di un chilometro. Anche per i giornalisti era impossibile andare così vicino. Ma qui in India è diverso. Nella vicina Barakamba Road, dove c’è stata un'altra bomba in un cestino, ho visto gli investigatori raccogliere con le pinze degli indizi dal marciapiede su cui sostavano decine di persone chiedendo gentilmente di spostarsi. Mi fa un po’ sorridere e ho dei forti dubbi sull’esito delle indagini. Ma non voglio ridicolizzare gli sforzi della polizia indiana che – lo si vede – ha scarsissimi mezzi. Però mi è capitato di assistere a una scena surreale. A un certo punto a Connaught Place sono arrivate le squadre degli artificieri con un aggeggio a metà strada tra una mini betoniera e un motorino tagliaerba. Forse, io sono abituata a vedere i robot artificieri che pensavo avessero in dotazione anche gli indiani. Il “bomb defuser” è stato scaricato da un camion nell’eccitazione dei giornalisti televisivi che si cimentavano a elencarne i pregi in diretta. C’è stato un parapiglia generale in cui i militari si sono inciampati nei cavi delle telecamere. Ha fatto un po’ di metri e si è spento improvvisamente. I cameramen sudatissimi si azzuffavano per riprendere ogni particolare. Un minuto dopo è arrivato un militare con una bottiglia di plastica piena di benzina. Il motore era a secco. Ma il bello doveva ancora venire. Per salire sul marciapiede ed entrare nel giardino c’è uno scalino di circa 30 centimetri. Qualcuno ha quindi portato una plancia di metallo, ma non era abbastanza larga per far passare le ruote. Passano dieci minuti. Arrivano dei sacchi di sabbia probabilmente prelevati da un vicino posto di blocco. Ma le ruotine del bomb defuser non c’è la fanno, lacerano i sacchi e si insabbiano. C’è un momento di panico in cui anche le telecamere si spengono. Qualcuno dei giornalisti suggerisce di sollevare la macchina. E’ la soluzione. Il bomb defuser entra trionfalmente nel parco dove gli artificieri stanno aspettando con un sacchetto di plastica appeso ad una sorta di canna da pesca. Era una delle nove bombe, non esplose, piazzate dagli Indian Mujahiddin come rivendicato nella loro articolata mail di 13 pagine spedita ai mass media. Ritornando a casa, nelle strade deserte della moderna Delhi, mi chiedevo se non era il caso di dirottare un po’ di soldi dai programmi di riarmo nucleare alla lotta anti terrorismo.

Il maglioncino di Marchionne e l’afa di Delhi


Di solito ammiro gli uomini coerenti con se stessi e di sicuro Sergio Marchionne è uno di questi. L’altra sera al ricevimento organizzato dal nuovo ambasciatore Roberto Toscano, l’amministratore delegato della Fiat si è presentato come d’abitudine con il solito maglioncino di lana blù. E’ la sua divisa di ordinanza che lo rende originale rispetto ai manager in doppio petto, ma penso sia anche una sorta di corazza scaramantica. O forse davvero il numero uno del Lingotto, che è mezzo canadese, soffre il freddo. Comunque nel giardino della residenza ufficiale dell’ambasciatore ci saranno stati 40 gradi con un tasso di umidità record. L’occasione che ha radunato un centinaio di invitati selezionati era la presentazione in anteprima della Linea, la nuova berlina prodotta in India nello stabilimento Fiat-Tata di Ranjangaon. Non potendo evidentemente essere mostrata nel salotto dell’ambasciatore, la vettura è stata esposta all’aperto su un palco con contorno di belle ragazze in tailleur bianco (qualcuno mi deve spiegare perché il lancio di un’auto deve essere obbligatoriamente unito alla presenza di signorine in minigomma). Ritornando al maglioncino di Marchionne, era evidente che non poteva che provocare un’abbondante sudorazione. L’eroico manager nella sua divisa da condottiero dei profitti ha però retto stoicamente il discorso di rito e anche un’intervista con la Rai dopo che il suo portavoce gli ha amorevolmente terso il sudore dalla fronte. “Fa caldo qui in India, vero?” gli ho detto mentre con i miei colleghi della carta stampata stavo aspettando il mio turno per fare le domande. Mi ha fatto un debole sorriso di approvazione, ma anche di sfida, come dire, non sarà certo l’India che mi farà levare il mio maglioncino. Il giorno dopo l’ho incontrato ad un convegno, con abbondante aria condizionata, a fianco di Ratan Tata. Spero non sia stato lo stesso maglioncino perché, si sa, la lana con il sudore…

Bombay, succo di canna da zucchero a Dalal Street

Ero al famoso bar Leopold di Colaba ieri mattina e guardandomi intorno, tra la folla di turisti, mi è sembrato di vedere qualcuno dei loschi personaggi descritti in Shantaram. Mi hanno detto che ogni tanto qui ci ritorna anche l’autore Gregory David Roberts. Sono a Mumbai da un paio di giorni, ma mi sembra di esserci da un secolo. Mi sono accorta quanto New Delhi è una piccola e anonima città di provincia al confronto. Arrivare nel cuore di Mumbai su uno dei treni che ogni giorno trasportano milioni di persone verso i loro destini, mi ha ricordato i brividi di gioia di quando vedevo all’orizzonte i grattacieli e i cartelli pubblicitari di Milano arrivando con l’autostrada dalla grigia Torino.
Come le vere grandi metropoli, Mumbai non dorme mai, forse si appisola un po’ dopo la mezzanotte, ma a Church Gate trovi sempre un’edicola aperta, i tassisti sono sempre svegli e mettono il tassametro, mentre davanti al Gateway of India, che è ancora impacchettato per i restauri, il luccichio dei calessi argentati e lo scampanellio dei cavalli, ti riportano ad una atmosfera da “Vacanze Romane”. Ieri mattina vicino al monumentale Taj Hotel ho incontrato di nuovo Amjad Khan, che come tutti i Khan di Mumbai sono più o meno intrallazzati con Bollywood. Lui fa di mestiere il procacciatore di comparse. Aveva assolutamente bisogno di quattro giovani ‘bianchi’ da trasformare in soldati dell’esercito britannico in un film d’epoca. Stava convincendo quattro ragazzi, un po’ perplessi, soprattutto all’idea di svegliarsi alle sette, ma che poi si sono convinti di fronte all’ipotesi di guadagnare 500 rupie, meno di 10 euro, a testa.
Poi sono andata a Dalal Street, la Wall Street dell'India, sede della borsa che da un po’ di mesi è crollata come le altre borse asiatiche. All’ingresso, sorvegliatissimo, hanno piazzato una scultura di un grosso toro dallo sguardo torvo e minaccioso. I superstiziosi dicono che da quando è arrivato le cose sono iniziate ad andare male. Ho visto qualche operatore che uscendo toccava la statua e poi si portava una mano alla fronte come fosse un ‘Nandi’ di Shiva. Questo è in realtà il tempio della nuova speranza indiana. Sono rimasta a guardare il via vai di professionisti in giacca e cravatta e i pensionati con il naso in su a controllare le azioni che scorrono su un insegna luminosa tipo Time Square. Ma mi ha impressionato di più il venditore di succo di canna da zucchero, con la sua pressa a motore dove tritava grossi fasci di canne depositate sul marciapiede, completamente ignaro del fiume di soldi che scorreva a pochi metri da lui.

I sette piaceri del Ferragosto a New Delhi


A parte la mia città natale, Chivasso, in Piemonte, il posto dove ho vissuto piú a lungo è stato a New Delhi. Spesso la gente mi chiede che cosa ci trovo in una metropoli che ha il triste record di essere una delle peggiori al mondo per qualità della vita.
Ecco un elenco semiserio dei sette piaceri nascosti di Delhi a Ferragosto.
- Il mango shake a Sarojini Nagar. In un angolo del mercato-ritrovo per gli stranieri c’è un posto dove fanno le spremute con frutta di stagione. Il frullato di mango, servito con contorno di uvetta afghana e nocciole cashew, ti fa dimenticare che lì vicino due anni fa è esplosa una bomba che ha ucciso decine di persone.
- Una nuotata in piscina al Samrat Hotel. La maggior parte degli stranieri, con la puzza sotto il naso, pensa che la piscina, 25 metri, non sia abbastanza pulita e che i lettini siano scomodi. Per me che sono una nuotatrice è la migliore in assoluto, soprattutto in agosto quando tutti sono in vacanza e io trasferisco il mio ufficio a bordo piscina. Sto scrivendo proprio da qui grazie al Wi Fi dell’albergo.
- Il percorso jogging triplice combinato di Safdarjung Park, Hauz Khas e Deer Park. Un’oasi fantastica con giungla, lago e rovine storiche dei mughal, in pieno centro della moderna Delhi.
- Lo speciale dahi cachori alla pasticceria Evergreen a Greenpark market. Non è possibile descriverlo, e la vera bomba H indiana.
- Passeggiata al tramonto a Jama Masjid, l’angolo piú pittoresco di Delhi, nonostante un recente articolo sul Sole 24 Ore che lo definiva “un vero formicaio dove regna una confusione che spaventa anche i viaggiatori più incalliti”. Boh..
- Uno “sheesh kebab rolmati”, uno spiedino di agnello avvolto nel pane arabo da Khan Chacha, un buco di un paio di metri quadri, nella strada interna del ricco e griffato Khan Market, ma dove c’è sempre la fila fuori. Meglio se consumato sul sedile dello scooter.
- Per gli amanti della vita notturna infine una serata con i “belli e famosi” di Delhi ad uno dei tanti party esclusivi organizzati da famose marche di whisky dove, qui più che mai, si ha davvero la sensazione i appartenere a una esigua minoranza di fortunati della Delhi da bere.

L’epilogo dopo 2330 chilometri in scooter


Spedizione Himalaya 2008, giorno quarantasei e ultimo, sul treno da Jammu a Delhi.

Scrivo dalla cuccetta in classe sleeper dello Shalimar Express diretto a Delhi. Appena fuori dai confini del Kashmir, dove stanno ormai divampando le proteste, il collegamento internet del mio laptop si è rimesso a funzionare e così anche il mio cellulare. Ben ritornata in India. Lo scooter è una decina di vagoni indietro, tra sacchi di farina e uno stock di ventilatori. Faccio scorrere sullo schermo le immagini del viaggio. Nella mia mente in parallelo scorrono le emozioni. In 45 giorni ho macinato in tutto 2330 chilometri con lo scooter (più un migliaio in Ladakh tra autostop, bus e jeep). Se guardo la mappa dell’India mi accorgo che ho tracciato una ‘q’ partendo dal basso. Ho disegnato un’asta verticale da New Delhi a Keylong, poi sono ritornata indietro un po’, quindi a sinistra verso Jammu, in su a Srinagar e a destra a Leh. Cerco qualche significato nascosto, mi viene solo in mente il banale “q come quadro” che insegnano a scuola.
Cosa vedo nel mio quadro? Chissà perché mi vengono in mente i cani randagi sul ciglio della strada, impauriti dal traffico, quelli orrendamente spiaccicati in mezzo alla carreggiata e quelli stralunati che vagavano tra i burroni del Ladakh. E in particolare uno, completamente senza pelo a causa della scabbia, che ho visto al mercato di Mandi. Gli ho versato un pacco di biscotti davanti, ma c’è andato un po’ di tempo perché li mangiasse. Questo viaggio è dedicato a loro, ai cani randagi, ma anche alla scimmia che ha tentato di fregarmi la macchina fotografica a Shimla e all’asinello che mi ha morso un gomito a Leh. La mia emozione più forte la devo alla mostruosa galleria Jawahar, che attraversa il Pir Panjal tra Jammu e Srinagar. Non lo faccio mai, ma ho pregato il Signore perché mi facesse vedere la luce in fondo al tunnel. La gioia pura invece è stata al raggiungimento della vetta del Rohtang Pass a 4000 metri mentre dall’euforia mi scappava perfino la pipì. Il piacere fisico più intenso sono stati i bagni caldi nelle vasche di acqua sulfurea di Manikaram. E poi il profumo di muschio delle montagne dell’Himachal e quello di una specie di lavanda in Ladakh, ma mi va di ricordare anche il profumo dei campi di marijuana nella Parvati Valley, l'erba maledetta che ha messo nei guai tanti ragazzi, come quelli incontrati nella prigione di Mandi. Del cibo posso solo rammentare il sapore delle dolcissime albicocche di Dah, il paese degli ariani, e di certi croissantes al cioccolato nelle mitiche colazioni di Leh. Delle decine di persone incontrate, mi è rimasto impresso Lot Rama Thakur, incontrato a Kasol, e che va in giro a divulgare le tradizioni e la cultura dell’Himachal Pradesh, nonché i benefici dell’urinoterapia. Ma come potrei anche dimenticare AD Sharma, gestore della guest house di Chindi, con il suo cucciolo di spaniard e felice di avere la prima e forse unica cliente straniera nel suo hotel tra i meleti. Sono stata felice poi di ritrovare vecchi amici, come Andrea, architetto e restauratore che lavora a Leh e nuovi amici, come Daniele che è arrivato dall’Italia con una moto BMW che sembra un’astronave. Il viso che non dimenticherò mai è quello della piccola zingarella davanti al mercato di Anantnag, sulla strada per Srinagar e quello di un'altra bimba nomade nel campo di Baltal dagli occhi blu cielo.
Mentre giro tra le dita la valvola di scarico danneggiata dello scooter, che conservo come un amuleto, penso con un po’ di amarezza alla mia paura di proseguire verso il Ladakh. Mi è mancato il coraggio o forse è prevalso il buon senso. Non so se il motore ce l’avrebbe mai fatta su quelle strade che si arrotolano e si srotolano come gironi infernali intorno a precipizi mozzafiato. Sono però sicura che in caso di difficoltà avrei trovato qualche buon samaritano come i militari che mi hanno caricato insieme allo scooter nel cassone del loro camion, prima di Srinagar. La solidarietà tra viaggiatori non è una merce rara da queste parti e questo è il più bel souvenir del mio viaggio.
Per finire non posso che essere fiera anche del seguito che ha avuto la Spedizione Himalaya 2008 sul mio blog Indie, delle lettere di complimenti e di incoraggiamento che ho ricevuto e della lusinghiera recensione su Cyberscooter.com.
Che aggiungere poi? Come dice spesso il mio caro amico Sebastiano, che è l’ispiratore della mia avventura, buena onda…

SH08, San Lorenzo, Hanuman e la fine del viaggio


Spedizione Himalaya 2008, giorno quarantacinque, Ramban-Jammu

L’hotel di Ramban dove mi sono fermata, dal pretenzioso nome di Shan Palace Hotel, ha una splendida vista panoramica sulla vallata. Peccato che sia una catapecchia fatiscente con i lavandini senza acqua e che come altri posti sia usato dall’esercito quando ne ha bisogno. Dal balcone della mia camera ieri sera ho cercato qualche stella cadente, era la notte di San Lorenzo, ma la luna faceva troppo chiaro per i desideri. Questo è il tratto più bello della strada da Jammu a Srinagar. Ho lasciato Ramban verso le sette del mattino, senza fare colazione, perché volevo godermi il sole del mattino sulle pinete della vallata. Ho cominciato la lunga salita verso Patnitop, sempre con il pensiero al motore surriscaldato. Mi sono fermata tantissime volte, soprattutto per scattare foto ai segnali gialli della società di costruzioni stradali Beacon – sto facendo una collezione – e anche per la solita serie di chai, penso di essere ormai assuefatta. Come all’andata, il passo di Patnitop, con le sue antiche pinete, era avvolto da una fitta nebbia. Poi si è messo anche a piovere, ma nel frattempo avevo cominciato una lunga discesa che dopo un paio di ore mi ha portato a valle. L’ho fatta quasi tutta in folle. Stavo per lasciare le ultimi pendici, a una cinquantina di chilometri da Jammu, quando ho visto un tempietto dedicato al dio-scimmia Hanuman lungo un torrente. Sono scesa e mi sono seduta su un ponticello di cemento ricoperto di muschio e di farfalle gialle. Ho deciso che questo sarebbe stato l’ultimo giorno della Spedizione Himalaya 2008. E’ giunto il tempo di ritornare in pianura e non me la sento più di forzare il mio povero (ed eroico) scooter. All’inizio pensavo di venderlo o abbandonarlo se non ce l’avesse fatta, ma ora dopo questa avventura lo devo riportare a casa. E’ ormai un pegno.
Arrivata a Jammu, la capitale invernale indù del kashmir, paralizzata dalle proteste come la sua gemella mussulmana Srinagar, ho deciso di caricare lo scooter sul treno notturno per Delhi. Con mio stupore me lo hanno impacchettato con sacchi di juta e imbottito di paglia. Poi hanno levato la benzina dal serbatoio, ma io non volevo abbandonare due litri di prezioso carburante, quindi li ho convinti a nasconderle nel cassetto portaoggetti dello scooter. Alle nove di sera sono salita anch’io sullo Shalimar Express pensando alla stella cadente che non sono riuscita a vedere la notte prima e al fatto che non ho potuto esaudire il mio unico desiderio. Di viaggiare per sempre.

SH08, di nuovo in scooter nella Valle assediata


Spedizione Himalaya 2008, giorno quarantaquattro, Srinagar-Ramban

Da oggi finalmente sono di nuovo in scooter. Uscendo da Srinagar, tra due ali di soldati schierati, ridevo come una bambina felice di avere di nuovo la sua bambola preferita. Mi preoccupa un po’ il suono ‘inscatolato’ del motore. Mi sarò fermata una ventina di volte perché mi sembrava si scaldasse troppo. Ho una paura folle che mi lasci di nuovo a piedi. Ascolto i ‘battiti’ del motore con apprensione e ogni tanto mi sembra che abbia qualche scarto. E` successo a fine giornata, dopo aver attraversato il Pir Panjal, quando si è messo a singhiozzare, credevo si fosse grippato, poi per fortuna è ritornato a funzionare, ma lo strano rumore è aumentato. Non so cosa sia successo, meno male che ero in discesa. Forse oggi ho esagerato, ho fatto un centinaio di chilometri, sono a metà strada tra Srinagar e Jammu in fondo a una larga vallata. Il posto di chiama Ramban e forse una volta era un villaggio turistico, mentre ora è praticamente una postazione militare. Ci sono soldati ovunque a protezione dei pellegrini di Amarnath e anche dei camionisti kashmiri che nei giorni scorsi sono stati aggrediti dai dimostranti indù.
Ero curiosa di vedere il blocco stradale che ‘stritola’ Srinagar, ma che in realtà non l’ho trovato. Ma forse sono stata solo fortunata oppure è davvero una strumentalizzazione dei kashmiri come accusa il partito di destra del Bjp. Avevo anche paura di prendermi delle sassate dai mussulmani che mi potevano scambiare per una pellegrina di Shiva o dai nazionalisti indù a caccia di kashmiri da linciare. Dopo il famigerato tunnel Jawahar (questa volta mi sono infilata dietro ad un’autobotte che mi ha fatto luce, pero è sempre stato uno choc), quando mi sono fermata per la registrazione stranieri in uscita, i soldati mi avevano detto che la strada era bloccata a Ramsu dopo la galleria. In effetti, arrivata lì, ho visto chilometri di camion in sosta, saranno stati centinaia. Ecco perchè la strada era insolitamente deserta. Un poliziotto –che mi ha anche offerto un chai e che era di turno da ben 16 ore mi ha detto che era per via di una ‘landslide’, una frana, e che tutto era risolto. Una balla spaziale? Io non ho visto nessuno segno di una frana. Il dramma è che hanno fatto muovere la gigantesca colonna proprio quando sono arrivata. Ho zigzagando tra i camion, tra nuvole di polvere e di gas di scarico, con la paura a volte di essere schiacciata contro la roccia quando la strada sera troppo stretta anche per permettere il passaggio di una moto. Da alcuni camion diretti a Jammu, usciva un odore di frutta marcia, mentre in altri, diretti a Srinagar, ho visto le gabbie con i polli semicadaverici. In India non esistono camion con celle frigorifere, si può quindi immaginare cosa vuole significa un blocco stradale come questo che dura da alcune settimane. Giustamente i kashmiri si lamentano che non possono trasportare la loro frutta (tra cui le rinomate mele) e intendono organizzare una marcia verso Muzaffarabd, nel Kashmir pachistano o Azad Kashmir (libero Kashmir) che si trova ad appena una sessantina di chilometri ed è la strada di accesso più naturale alla Valle, anche se ben ricordo da Muzaffarabad alla pianura di Islamabaad c’e ancora un bel pezzo e la strada non è larga come quella in territorio indiano.
Un ragazzo friulano, Simone, da tre mesi a Srinagar, che si occupa di antropologia culturale e che dice di sentirsi ‘coinvolto’ nella causa kashmira, mi aveva quasi convinto a rimanere per la marcia Muzaffarabad Chalo (‘Andiamo a Muzaffarabad’). Secondo lui la protesta è diversa questa volta perchè e più spontanea e coinvolge tutti, dai commercianti ai proprietari delle house boat. Ma io avevo troppa voglia di rimettermi in sella, annusare di nuovo gli odori della strada e di tanto in tanto fermarmi a caso per sbirciare nella vita della gente, ma senza fare rumore, come sempre in punta di piedi.

SH08, tra lacrimogeni e valvole di scarico


Spedizione Himalaya 2008, giorno quarantatre, Srinagar

Oggi è venerdì, giorno di preghiera e anche nuova giornata di mobilitazione. Ieri risono sono finita in mezzo agli scontri tra dimostranti e polizia mentre andavo a visitare la grande moschea di legno che si trova nel centro storico di Srinagar. Poco prima un gruppo di giovani, tra cui alcuni adolescenti, stavano tirando sassi contro dei militari che si facevano scudo con le corazze di bambù. Incredibile quando sappiano lanciare forte e lontano, dicono che sia per via del cricket…. Ho rischiato anch’io di prendermi le sassate mentre stavo cercavo di fotografarli. Non vogliono giornalisti, penso, perchè hanno paura di farsi riconoscere se le foto sono pubblicate sui giornali, anche se sono quasi tutti a viso coperto. I soldati hanno risposto con i gas lacrimogeni, ma succede anche che sparino proiettili veri, non vanno troppo per il sottile. Un quotidiano in inglese, che leggo ogni giorno, “The Greater Kashmir” oggi in prima pagina denunciava l’uso di una sorta di razzo, chiamato Rudra, di solito usato per operazioni antiterrorismo, e quindi spropositato contro i manifestanti. Ovviamente quando ho sentito il primo botto del lacrimogeno sono scappata via nei vicoli laterali. Qualcuno mi ha offerto di rifugiarmi in casa sua. E’ lì che ho avuto un flash-back, mi sono ricordata la stessa scena a Hebron, in Palestina, tanti anni fa, gli stessi ragazzi con i jeans alla moda, i cappelli con il gel e il fazzoletto sotto gli occhi. E davanti a loro una fila di militari con i giubbotti anti proiettili protetti da un blindato. La strada piena di detriti e di spazzatura, le saracinesche con le scritte, i muri scrostati, le tettoie penzolanti, donne con un bambino per mano o con la sporta traboccante di verdura che corrono per attraversare la strada deserta. Simboli comuni di una città che è imprigionata nella violenza. Ma poteva essere anche essere il centro di Colombo, in Sri Lanka, o Khatmandu nei giorni di coprifuoco durante la guerriglia dei maoisti. O forse anche Baghdad o Kabul. Che tristezza.
Ma oggi avevo una mia battaglia personale. Nonostante la serrata, stavo cercando una soluzione per il pezzo rotto dello scooter, ovvero la valvola di scarico, ‘exhaust valve’, in inglese, che si è materializzata sotto forma di Rafik Automobile, un maestro del tarocco, che saltando addirittura la preghiera del venerdì mi ha consegnato il pezzo nuovo di zecca, dopo un piccolo accorgimento in una molla, che non ho ben capito. Continuo a rimpiangere di aver speso così tanti anni a studiare latino e non avere idea di come funziona un motore a due tempi. Comunque, tutta contenta, con il nuovo pezzo e la camera di combustione nello zaino, sono andata alla mega dimostrazione che partiva da Jama Majdid per finire davanti alla sede dell’Unmogip (gli osservatori dell’ Onu che sono qui da oltre mezzo secolo a ‘osservare’ il cessare il fuoco tra India e Pakistan). La loro presenza è del tutto simbolica, ma proprio per questo la loro sede è spesso usata come punto di arrivo delle marce di protesta antiindiana. Come avviene di solito, anche la marcia di oggi è stata bloccata molto prima che arrivasse al lago Dal. Io li ho seguito per un po’, prima che fossero caricati dalla polizia, anche perchè ero con una bicicletta affittata e temevo di rimanere incastrata nella fiumana di dimostranti quasi esclusivamente uomini. Poi volevo assolutamente ritornare in guest house per vedere la cerimonia di inaugurazione delle Olimpiadi a Pechino. I botti ipocriti dei cinesi in televisione si confondevano con quelli dei militari indiani contro i kashmiri. One world, one dream.

SH08, Srinagar paralizzata da una serrata generale

Spedizione Himalaya 2008, giorno quarantadue, Srinagar


Da ormai tre giorni a Srinagar è sciopero totale per protestare contro il blocco economico imposto a valle dai nazionalisti indù di Jammu. Le strade sono vuote, i negozi tengono le saracinesche semiabbassate, ma appena passa qualcuno dei leader di Said Ali Geelani le chiudono impauriti come ho visto mentre facevo colazione in una pasticceria di Lal Chowk vicino all’internet cafè CNS. Un ragazzo che incontro mentre ritorno dalla mia ennesima infruttuosa visita al meccanico Honda di Rajbagh mi dice che la serrata è spontanea, ma non ci credo troppo. Ho l’impressione che i negozianti siano minacciati e che come sempre in questi casi la popolazione è ostaggio di complicati giochi politici. Il conglomerato dei separatisti, che si chiama Hurriyat Conference, è spaccato. L’ala più dura guidata dall’anziano e temuto leader Syed Ali Geelani è quella che comanda e che probabilmente non vuole la “normalità” che per il Kashmir significa soprattutto prosperità economica. Da due anni a questa parte i turisti, soprattutto indiani, sono tornati in villeggiatura nella Valley affollando houseboat e shikara e portando un sacco di soldi.
Per farla breve, l’attuale crisi è nata agli inizi di giugno quando il governo locale dello stato di Jammu e Kashmir ha concesso ai pellegrini della grotta di Amarnath, dove c’è lo Shiva linga di ghiaccio, di utilizzare un area di foresta per farne strutture permanenti, tipo bungalow e bagni pubblici. Da oltre due secolo l’area è usata dai pellegrini indù, ma solo nei due mesi estivi della celebrazione. Ovviamente i mussulmani sono andati su tutte le furie e la protesta ha incendiato Srinagar costringendo alla fuga i turisti che erano tantissimi. Ci sono stati anche dei morti. Il governo locale ha fatto immediatamente dietro front, ha revocato l’assegnazione della terra e poi è caduto. New Delhi ha mandato un nuovo prefetto per garantire l’ordine. A quel punto la rabbia è scoppiata tra i nazionalisti indù che hanno preso la revoca come un affronto e che hanno deciso di vendicarsi bloccando la strada nazionale Jammu-Srinagar che è il cordone ombelicale della Valle. Dopo 15 giorni di assedio economico e violenze contro i mussulmani a Jammu (dove la popolazione è mista), i kashmiri hanno perso la pazienza e sono insorti. I ripetuti blocchi stradali hanno causato anche carenza di medicinali, cibo e altri generi, tra cui il famoso pezzo di ricambio del mio scooter che non è mai arrivato.

SH08, il bus di notte per Srinagar

Spedizione Himalaya 2008, giorno quarantuno, Alchi-Kargil-Srinagar

Ho fatto una maratona autostop-jeep-bus di 24 ore per arrivare a Srinagar e scoprire che lo scooter non era stato ancora riparato. Lo sapevo, quando mai riesco ad ottenere qualcosa senza dover impazzire? Con l’aggravio che qui in Kashmir le donne sono considerate cerebrolese in cucina, figuriamoci dal meccanico. Ho lasciato il Ladakh senza dispiacere perché il cielo si era rannuvolato. Ho incontrato una coppia di bolognesi diretti a Dras e ho chiesto un passaggio sulla loro jeep fino al monastero di Lamaruyu, dove loro si sono fermati e io ho proseguito con un taxi-jeep dove ho conosciuto uno studente di geologia. Mi ha detto che si comincia ad esplorare la zona che potrebbe essere ricca di minerali e anche di uranio. Durante la sosta pranzo a Mulbek ho di nuovo incontrato gli italiani, la strada è la solita ed è facile incontrarsi. Circa tre ore dopo ero nel suk arabo di Kargil dove ho trovato un internet cafè e qualche giornale. Il bus per Srinagar partiva alle dieci di sera, quindi mi sono avventurata alla ricerca di un museo di tradizione e folklore locale che è sulla parte alta della città e che è stato realizzato dalla famiglia di un commerciante, Munsi Aziz Bhat. E’ interessante perché ho visto alcuni degli articoli che si commerciavano nell’Ottocento, dai bottoni di madreperla italiani alle medicine fino ai rasoi. Kargil si trovava sulla via della seta ed era un crocevia importante per il commercio tra India. Tibet, Baltistan e l’Asia centrale. Peccato che sia abbastanza inospitale come città, avverto una certa ostilità e poca disponibilità a venire incontro agli stranieri che qui sono solo di passaggio. Per esempio i tassisti mi hanno depistato e fatto credere che non c’erano posti sul bus notturno. E’ vero che i bus locali in India sono un terno al lotto, preferisco non comprare biglietti prima, tanto un posto spunta sempre fuori. Il bus che ho preso per Srinagar era privato e aveva anche una televisore al plasma superpiatto. Immagino quanto sarà costato.
Appena partiti, ancora prima di affrontare la salitona dello Zoji La, il controllore ha messo un dvd che era niente di meno che LOC, un colossal sulla guerra di Kargil del 1999, vinta dall’India grazie alle eroiche azioni dei suoi soldati che hanno respinto i pachistani proprio tra questi picchi. Le scene che si vedevano erano le stesse che il bus stava attraversando. Penso sia voluto, magari a fin i propagandistici visto che sii va in Kashmir. La situazione era però surreale, mentre il bus arrancava su per i tornanti nel buoi più assoluto, talvolta incrociando altri camionn che lo costringevano a s-porgersi pericolosamente sul ciglio, sullo schermo scorrevano scene di violenza e sangue, esplosioni di convogli militari, urla di dolore dei soldati e di esaltazione quando la postazione nemica saltava in aria. Non so quanto è durato , forse 4 ore, dopo un po’ mi sono spostata sugli ultimi sedili che erano liberi e mi sono distesa. Il bus saltava come un cavallo impazzito e alcune volte stavo per essere sbalzata via. Sembrava di fare un rodeo. Sono arrivata in una Srinagar fantasma all’alba con la pioggia. Le strade erano ancora ricoperte di pietre e di gomme bruciate durante gli scontri con l’esercito. Il giorno prima era morto un ragazzo. C’erano soldati ovunque. Appena scesa dal bus qualcuno due tizi mi hanno proposto una house boat. Mi hanno seguito per un bel po’ poi li ho minacciati di chimare la polizia.E’ stato il benvenuto del Kashmir.

SH08, la centrale idroelettrica di Alchi


Spedizione Himalaya 2008, giorno quaranta, Dah-Alchi


Lo so che non si fa così. Potevo limitarmi ad ammirare i dipinti murali dei templi di Alchi, di sicuro i più belli di tutto il Ladakh, fare una passeggiata tra le bancarelle strapiene di collane di turchesi e corallo, magari prendere un tè e poi ritornarmene nella mia tenda lussuosa tenda dove per la prima volta in questo viaggio ho trovato delle lenzuola immacolate e un soffice e profumato piumone. Ma io sono una ficcanaso e per di più rompiballe, come mi dice spesso la mia amica Giorgia che oggi mi ha lasciato approfittando di un passaggio in jeep a Leh. Quindi dopo aver ammirato gli affreschi e gli stucchi colorati dei vari Buddha, appartenenti più o meno al decimo secolo e di scuola kashmira, verso le sei mi sono incamminata fuori dal paese. Tanto per fare due passi, visto che ero stata quasi tutta la giornata “sopra” il bus, sul tetto intendo, tra cavoli, balle di fieno e bombole del gas. Sono scesa verso il fiume seguendo la solita mulattiera punteggiata di chorten. Arrivo giù e ti trovo un ponte di ferro, una strada enorme che si inerpica su un costone e all’orizzonte tre enormi gru gialle stagliate contro le montagne color melanzana. Incuriosita mi metto in marcia. Mi trovo davanti a un cantiere gigantesco di costruzione di una diga per una centrale idroelettrica. Non l’avevo mai visto. Sul letto del fiume, deviato su un lato con un muro di cemento, erano in azione contemporaneamente trivelle, idrovore, generatori, ruspe, betoniere, saldatrici elettriche e martelli compressori azionati da decine di operai con il casco blu. Dall’alto lo spettacolo era esaltante, devo ammettere, certo un po’ in contrasto con la pace dei monasteri buddisti e con l’armonia della natura. Il fiume, imprigionato dalla barriera di cemento, era diventato a monte una enorme pozza d’acqua grigia. Intorno al cantiere c’erano le baracche degli operai, ferro e sacchi di cemento. Per bypassare il paese avevano costruito una strada su cui c’erano degli omini con una paletta rosso-verde a fare da “semaforo” ai camion che arrivavano dal cementificio. La gittata per il muro della diga era in corso e le gru erano in continuo movimento. Ho attraversato il cantiere, cosa che da noi sarebbe impossibile per motivi di sicurezza, ma nessuno mi ha fermato. Dall’altro lato ho scattato un paio di foto delle gru che danzavano con sullo sfondo il verde villaggio di Alchi che si troverà a valle della diga…. Il gestore dell’”Eco Resort”,il campeggio di lusso dove mi trovo, mi ha detto che i lavori sono no stop. ‘Vedessi che bello, di notte, è l’unico punto illuminato in tutta la vallata” mi ha detto con una certa invidia visto che qui la corrente elettrica è dalle 8 alle dieci di sera e poi tutto sprofonda nel buio pesto (lasciando però emergere un cielo stellato da presepe).
Probabilmente quando la centrale idroelettrica sarà terminata, la gente di Alchi e degli altro villaggi avrà finalmente energia elettrica a volontà e cambierà per sempre la loro vita. E’ giusto così, non si può pensare che il Ladakh debba rimanere congelato nel suo medioevo solo per sollazzare i turisti annoiati dalle loro ridondanti comodità occidentali. E poi meglio una centrale idroelettrica che una a carbone. Non voglio giudicare. Ma il mio ricordo di Alchi ora non sono le opere d’arte nei templi-musei, dove i monaci hanno smesso di pregare, ma la perenne lotta dell’uomo per domare a suo servizio la natura. Neobuddismo?

SH08, Dah: “Noi siamo i veri ariani”


Spedizione Himalaya 2008, giorno trentotto e trentanove, Dah

A circa cinquanta chilometri a nord ovest di Leh il fiume Indo si incunea in uno stretto canyon parallelo al confine conteso con il Pakistan. E’ la vallata di Dah o meglio il ‘circuito dei Dropka”, una piccola comunità di origine ariana che abita in una manciata di villaggi. Siccome è zona militare, per gli stranieri occorre il permesso che si ottiene facilmente da Leh attraverso le agenzie di viaggio. E’la parte più bassa del Ladakh e pare anche quella più fertile. Il paesaggio non è nulla di particolare, ma ad incuriosirmi ovviamente è la faccenda degli ariani che per noi evoca un mito e un periodo più triste della storia dell’umanità. Avevo visto poi alcune donne della vallata di Dah con degli strani copricapo vendere le albicocche al main bazar di Leh. Ci sono anche molte cartoline che ritraggono i Drokpa. Sospettosa e cinica come sempre, pensavo fosse una trovata turistica. Invece mi sono ritrovata davanti ad un soggetto di antropologia umana. La gente ti accoglie dicendo: “We are pure aryans”. L’India davvero non finisce mai di stupire. Non penso di essere stata la prima a scoprire la vallata di Dah, che per buona parte tra l’altro è off limits per i visitatori, anche indiani. Durante la guerra di Kargil nel 1999 il villaggio è stato pesantemente bombardato e c’è stata anche una vittima tra gli abitanti. E’ di sicuro la parte meno visitata del Ladakh, ci sono solo due posti per dormire e nessun ristorante o anche semplice negozio.
Dah sorge su un costone della montagna tra l’Indo e un altro torrente che arriva dal Pakistan. Non c’è strada, si arriva in un quarto d’ora di cammino attraverso una lunga mulattiera costeggiata di albicocchi. Adesso è stagione di raccolta, gli alberi sono strapieni di frutti di maturi, mentre quasi tutte le ricce piatte e i tetti sono occupati da albicocche snocciolate e stese ad essiccare. L’aria è permeata dal loro profumo. Ma negli orti ci sono anche zucchine, cavolfiori e pomodori.
Non saprei dire a quale razza somiglino. Sono di pelle chiara, statura media, zigomi alti e naso aquilino. Di origine sono caucasica, ma si potrebbero confondere benissimo con slavi, israeliani o secondo me anche italiani. Di sicuro non hanno nulla a che vedere con i tibetani o con gli indiani. Hanno una loro lingua, solo orale, che dicono somigli al sanscrito. Sono buddisti, stanno costruendo un nuovo tempio (quello vecchio lo hanno buttato giù), ma in un angolo del paese, sotto una roccia, c’è un luogo sacro pieno di corni di stambecco, con una sorta di altare in pietra, dove le donne non possono entrare. C’è sicuramente commistione con l’antica religione Bon, che è pre buddista. Mentre stavo scattando una foto di albicocche essiccate su una roccia a forma di svastica – che è un simbolo sacro degli induisti, ma qui tra gli ariani fa un certo effetto – ho incontrato per caso uno studioso francese di antropologia che sei anni fa ha studiato questa gente. Si chiama Olivier ed era in compagnia di un locale, che è proprietario di una delle due guest house e che lavora a Leh. Ho cercato di farmi raccontare qualcosa, ma entrambi erano abbastanza misteriosi, il che ha aumentato ancora di più la mia voglia di sapere. …Mi ha fatto capire che la gente stanno cercando disperatamente di preservarsi e mi è sembrato anche un poi rigido nel difendere la propria razza, anche qui di nuovo ho avuto un sobbalzo visto che si tratta di ariani. Ma come per il resto del Ladakh il progresso si ferma. A Dah grazie al governo ci sono piccoli pannelli solari che assicurano corrente alla sera per le lampadine e la televisine, in bianco e nero di solito. Altri elettrodomestici, tipo frigo, non esistono. La rete televisiva pubblica DD, Doordashan ci ha costruito un ripetitore sul cucuzzolo del paese così che il piccolo schermo oggi è entrato a far parte della loro vita. I vecchi però, l’ho visto usano ancora le lampade con grasso di animale. Ho accompagnato Olivier, che ha passato in totale un anno qui, nel suo giro di saluti. E rimasto impressionato dal fatto che le anziane non portassero più i fiori in testa, come una volta, ma solo il cappellino di lana messo per traverso con dei pon pon colorati e delle monetine. E` il copricapo più strano che abbai mai visto. Gli uomini poi hanno una fila di bottoni di plastica attaccati ai lobi delle orecchie, cosa che neppure i nostri punk più estremi hanno mai pensato di mettersi. Alcuni hanno un fiore rosso di stoffa nel berretto. I gioielli sono poverissimi, di latta e ferro, la collana è unita agli orecchini. I capelli delle donne, ma solo le anziane, anche qui l’ho visto fare, sono estensioni di trecce legate tra di loro all’estremità.
Olivier mi ha mostrato poi la vera chicca, che secondo lui nessuno ha studiato. Fino a 70 anni fa, la popolazione di Dah viveva in un fortino, i cui resti sono ancora visibili, anche se ora ci stanno costruendo un mini ambulatorio. La costruzione era situata in un pianoro inaccessibile circondato da precipizi verticali. Lui ha conosciuto l’ultimo degli abitanti che ci ha vissuto che non c’e più. Il forte era fatto di decine di stanzette, di cui si può vedere il perimetro delle mura. Ha saputo che avevano anche delle vedette lungo la valle. Penso che i nemici non mancassero anche perchè dalla valle dell’Indo arrivava di tutto da Alessandro il Grande in poi. Tra l’altro pare che proprio lui si fosse fermato qui dopo una rivolta dei suoi guerrieri macedoni che non se la sentivano di proseguire oltre, giustamente, visto i passi del Ladakh.
A Dah ho anche vissuto uno dei momenti piu esaltanti della mia spedizione. Ho trascorso la mattinata con la padrona della mia guest house Tsering Dafkar a raccogliere le albicocche insieme a figlio (ha 4 figli maschi, di cui uno mandato in monastero) e suocero. Abbiamo riempito tre gerle, mica male… tra ariani ci si intende…

SH08, la fabbrica della pashmina di Leh


Spedizione Himalaya 2008, giorno trentasette, in bici nella zona industriale di Leh


Dopo sette anni di India penso di aver sviluppato una sorta di allergia alla pashmina. Dall’estremità meridionale di Kanyakumari fino al più isolato villaggio del Rajasthan c’è qualcuno che immancabilmente ti ferma per venderti un ‘pure pashmina shawl”, una sciarpa di pura lana pashmina. Non è possibile, come non è possibile che nel mondo ci siano milioni di litri di barolo. “La maggior parte non è lana pashmina. L’unica vera pashmina è quella prodotta qui in Ladakh” mi dice Nawan Stobdan, responsabile della fabbrica della pashmina che sorge nella zona industriale di Leh ed è gestita dalla All Changthang Pashmina Growers Cooperative Marketing Societies Ltd, una cooperativa di produttori della lana che sono i nomadi Changhtang che popolano le regioni orientali del Ladakh, dai quattro ai cinque mila metri, vicino al confine con il Tibet. Solo a questa altitudine la capra della pashmina ‘produce’ il soffice vello. La fabbrica è stata realizzata con l’aiuto dell’Onu, quattro anni fa per dare la possibilità ai nomadi di vendere direttamente la lana saltando gli intermediari. Quando inizia l’estate i nomadi raccolgono con un pettine la lana dalla pancia della capre. Ma è grezza, nel senso che è piena di polvere e impurità e soprattutto è mista con i peli più spessi. La pashmina è fatta da un pelucco che ha delle precise caratteristiche, in termini di lunghezza e diametro, non ricordo quanti micron. Secondo Nawan Stobdan, che con pazienza mi ha mostrato le fasi della lavorazione, in questa fabbrica di Leh esiste l’unica macchina in Asia in grado di separare i pelucchi fini dagli altri più spessi, un lavoro che prima veniva fatto a mano e che richiedeva ovviamente un sacco di tempo e il risultato non era lo stesso in termini di qualità.
Come ho potuto osservare (ma non fotografare), dopo il processo di lavaggio della lana grezza e il ‘dehired” si ottiene una sorta di sofficissima ovatta, che somiglia a quel ‘cotone’ che producono i pioppi in questa stagione e che invade strade e narici. E’ molto morbida e leggera. Viene quindi acquistata dalle industrie di tessitura che producono i famigerati scialli. Ma dalla fabbrica di Leh passa solo dal 10 al 30% dell’intera produzione nomadica.
Mi sono fatta dare un po’ di cifre: la produzione è solo di 100 chili al giorno e 30 mila chili a stagione. La lana può essere bianca, grigia, e beige a seconda del tipo di capra. La lavorazione è da aprile e settembre. I nomadi sono pagati 1500 rupie al chilo, che è il prezzo fisso con la possiblità di un rimborso successivo se il prezzo internazionale è più alto. Da un chilo di lana grezza si ottiene mezzo chilo di pashmina che viene poi venduta a 5 mila-6 mila al chilo. I prezzi sono in aumento perché la produzione è in declino. “Molti nomadi hanno lasciato il loro lavoro per venire a Leh dove pensano di guadagnare di più. E` comprensibile, le loro condizioni di vita sono difficilissime” mi spiega il responsabile che però aggiunge anche che molti sono tornati ad allevare capre una volta che si sono resi conto che non è facile trovare un lavoro in città. Certo è vero che la pashmina forse diventerà più rara in futuro.
Non potendo scattare fotografie all’interno, ho rubato qualche scatto dall’esterno spiando oltre il muro di filo spinato. Tanta sicurezza non è solo per la paura di furti della preziosa lana, ma perché si teme spionaggio industriale…

SH08, a cena nel palazzo reale di Stok


Spedizione Himalaya 2008, giorno trentasei, palazzo di Stok

Come in altri regni himalayani, penso al Nepal, Bhutan, Sikkim, anche in Ladakh c’era una dinastia reale anche se meno appariscente, nel senso che non esistono regge da mille e una notte o troni d’oro massiccio a forma di pavone. Il regno dei Namgyal, ovviamente buddisti tibetani, parte dall’anno 975. Sono sempre stati sulla rocca di Leh fino a quando a metà Ottocento non sono stati cacciati nel dai più sgamati e potenti regnanti di Jammu.
Da allora si sono rifugiati a Stok, che è a mezzora di auto giù nella vallate oltre l’Índo, dove ancora oggi c’è un palazzo, più modesto di quello di Leh, in parte trasformato in un museo e in una caffetteria con tavolini sulle mura esterne. I discendenti vivono qui insieme al loro carico di storia. Non sono venerati come i monarchi induisti di Kathmandu, il cui ritratto era presente in ogni casa nepalese almeno fino a prima dell’arrivo dei maoisti, ma hanno ancora un ruolo popolare soprattutto nelle cerimonie religiose.
L’ex sovrano si chiama Jigmed Namgyal e si occupa del recupero e del restauro dei vecchi monasteri costruiti dai suoi antenati. Grazie alla mia amica Giorgia Cantele, insegnante e studiosa di cose indiane, ho avuto la fortuna di conoscerlo e di essere invitata a cena ‘a palazzo’. A dire il vero ero anche abbastanza preoccupata vista le mie scarse frequentazioni dell’alta nobiltà indiana.
Invece a prenderci a Leh non è arrivato un calesse, ma una jeep e ad accoglierci non sono stati valletti di corte, ma una bella signora in jeans e kurta che mentre ci aspettava stava curando dei vasi di fiori all’ingresso del museo e che avevo capito subito che era la regina. Più che dei reali mi sono sembrati dei borghesi. Ma data la povertà del Ladakh mi è comunque difficile immaginare uno sfarzo simile a quello dei maharaja.
Il salotto dove siamo stati fatti accomodare all’interno del palazzo è quello tipico ladakho, con un rettangolo di tappeti con davanti dei bassi tavolini in tradizionale stile tibetano. Si mangia seduti per terra, dopo aver riempito i piatti. Ma c’erano anche delle giovanissime domestiche ad aiutare. Abbiamo mangiato una zuppa di verdura con delle specie di orecchiette fatte di “tsampa” come si chiama la tipica farina locale e dei momo che la “regina” ha fatto all’ultimo momento seduta sul tappeto davanti agli ospiti. Finalmente ho gustato del buon cibo ladakhi, una rarità che non sono riuscita a trovare nei ristoranti di Leh.
E` stata servita birra, l’onnipresente Kingfisher e anche un liquore, dell’arak alle albicocche. Per tutto il tempo Jigmed è stato seduto in una sorta di posto di onore, più alto rispetto al pavimento e con davanti un tavolino pieno di oggetti religiosi. Lui e la moglie hanno mangiato in piatti di rame, mentre noi in quelli di porcellana. Ho notato una certa deferenza anche da parte di altri ospiti indiani presenti prima di cena.. Prima di lasciarli, la mia amica ha chiesto il permesso di scattare una foto per ricordo. “Ma non siamo nei nostri abiti tradizionali…” hanno detto e non penso sia stata una battuta.
Beh, certo non è Versailles, ma anche sulla rocca di Stok ‘noblesse oblige’

SH08, un po’ di folklore al monastero di Pyangh


Spedizione Himalaya 2008, giorno trentacinque, Leh-Pyangh

Prima o poi doveva succedere che finissi ad uno spettacolo folkloristico di danze religiose ladakho-tibetane. Siccome mi avevano detto che questo tipo di eventi attirano di solito folle di turisti, avevo cercato di evitare. Ma un viaggio in Ladakh non è completo senza uno ‘tsechu’, un festival che ogni monastero tiene ogni anno di solito in estate per due giorni con un elaborato programma di danze rituali accompagnate dal suono di lunghi corni, tamburi e cimbali.
Grazie al passaparola dei turisti a Leh ho saputo che oggi la festa iniziava a Phyang, a 20 km, che è un gompa minore, non particolarmente attraente dal punto di vista culturale, ma che sorge su un cucuzzolo al centro di una bella vallata verde. Ci sono dei lavori in corso per costruire nuove strade e nuovi edifici, non sempre consoni con quelli vecchi. Una colata di cemento che avevo già visto nel mio precedente viaggio in Ladakh in particolare a Chemrey, il monastero del film Samsara. E’il solito dilemma tra progresso e conservazione del passato. Ovviamente il punto di vista di un occidentale in vacanza non coincide con quello della gente che vuole avere strade e una vita più facile.
Come succede in questi casi, le viuzze del monastero erano stracolme di bancarelle, mendicanti e venditori di albicocche. Mi sarei aspettata una sorta di biglietto di ingresso per entrare nel cortile dove c’era lo spettacolo. Invece no, a differenza dell’ingresso nel tempio, era gratuito. La gente era assiepata intorno e nelle loggia al primo piano. Alcuni erano anche saliti sul tetto e avevano piazzato il cavalletto per fotografare o filmare. E` impressionante vedere lo sfoggio di tecnologia fotodigitale. Molti turisti, soprattutto francesi e italiani, hanno teleobiettivi professionali. A vederli così impegnati e concentrati sulle riprese mi sembrava di essere ad un evento mediatico straordinario…
I danzatori, di solito quattro o cinque, con maschere e pesanti costumi broccati, sono guidati da un monaco che li segue a pochi metri. Anche loro sono monaci. Semplificando rappresentano la lotta tra le forze del bene e del male in una complessa simbologia che io, nella mia ignoranza, non sono assolutamente in grado di capire. Ogni danza era però preceduta da una breve spiegazione sull’origine del mito che intendeva rappresentare.
Ammetto che data la lentezza dei movimenti e la monotonia dei passi, dopo mezzora lo spettacolo diventa noiosissimo. E di fatti non ho resistito oltre, anche perché mi stavo beccando un’insolazione. Sono scesa dalla mulattiera che costeggia una fila di chorten e poi da li al fiume che non sono riuscita a guadare. Attraversando i campi di grano e orzo protetti da fasci di ginepro secco che è quasi come il filo spinato, mi sono ritrovata nel cortile di una casa privata dove giovani e vecchi stavano pranzando all’aperto su una tavola imbandita. Mi ha ricordato le nostre feste di paese, le sagre estive e le processioni con il santo locale e la banda. Anche se mancano le costine alla griglia e il barbera, è la stessa cosa anche qui a Pyangh. No, non è solo uno show per turisti.

SH08, Leh, l’ospizio degli asinelli

Spedizione Himalaya 2008, giorno trentaquattro, Leh-villaggio di Sankar (4 km)

Come prevedibile in queste settimane Leh è affollatissima. Il Ladakh è la destinazione turistica per eccellenza durante la stagione monsonica. La temperatura perfetta, i trekking e la cornice buddista-tibetana, più la facilità di accesso per via dell’aeroporto, attirano turisti da tutto il mondo. Ho perfino l’impressione camminando per strada che gli stranieri siano in numero superiore ai locali.
Dopo un po’ di vasche nel “main bazar” ho deciso di esplorare la valle a monte di Leh, dove sorge il villaggio di Sankar. Il paesaggio è bucolico fatto di ruscelli, campi di fiori e di grano, frutteti e case in impeccabile stile ladakho. C`è anche un monastero dove ci sono due stanze completamente affrescate. A fianco c’è una sontuosa residenza che è quella del lama capo del Ladahk, Kushok Bakula Rinpoche.
Ma in realtà la mia meta era il “Donkey’s Sanctuary”, l’ospizio degli asini, di cui avevo visto e fotografato un manifesto affisso su un muro in città. Non è stato facile trovarlo, alla fine una contadina mi ci ha portato a passo agile attraverso i campi. Si tratta di un appezzamento di terra dedicato a “asini di strada” o “randagi”. Quando ero venuta a Leh due anni fa avevo notato che di notte, quando le strade erano vuote, c’erano decine di asinelli che si contendevano la spazzatura con mute di cani e qualche mucca. Con la disponibilità di auto e camioncini molte di queste bestie da soma sono diventate “disoccupate” oppure sono troppo vecchie per essere usate nei trekking. Come mi ha spiegato il responsabile del rifugio, Stany Wangchuk, che in realtà è un tour operator che lavora con molti gruppi italiani, i proprietari li hanno semplicemente abbandonati in strada quando non gli servivano più. I piccoli asinelli in particolari sono frequentemente attaccati dai cani randagi. Circa un anno fa, una giornalista e vignettista di Capetown si è impietosita e insieme a Stany ha deciso di fare qualcosa.

Hanno raccolto i soldi per affittare il terreno e hanno assunto. Un mese fa hanno aperto il rifugio. Come (quasi) sempre in India, c’è sempre un input straniero dietro questo tipo di iniziative. Lo so, come afferma il mio amico e architetto italo-elvetico Andreas, che lavora da tre anni a Leh, prima dei quadrupedi bisognerebbe occuparsi dei bipedi che nei villaggi remoti se la passano abbastanza male. Ma l’asinello fa tenerezza e anch’io mi sono commossa di fronte ai piccoli di 5 o 10 giorni saltellare dietro la madre o all’asino zoppo che finalmente ha trovato un posto riparato e biada tutti i giorni. Ho visto poi i poveri animali sotto il peso di enormi carichi su per le mulattiere dei percorsi dei trekking. Insomma ho fatto la mia donazione di 100 rupie, scattato un sacco di foto e divertita ad accarezzare il ciuffo dei piccoli somarelli. Mi sono beccata pure una morsicata ad un gomito, probabilmente della madre infastidita. Ho cacciato un urlo, spaventata, ma per fortuna la ferita non era profonda, ma sono uscita in fretta dal recinto. I muri delle stalle e il cancello è pitturato con simpatiche caricature. C’è anche una citazione del Mahatma Gandhi che non so se è autentica, ma fa un certo effetto: “The greatness of a nation can be determined by the way its animals are treated”.

SH08, Sumda, un tesoro salvato dai discendenti reali del Ladakh

Spedizione Himalaya 2008, giorno trentatre, Leh-Sumda Chung

E` come da noi quando si trovano certe chiesette isolate che nascondono dei tesori d’arte. Sumda Chung è un villaggio di 12 anime, una cinquantina se si conta la diaspora, arroccato al fondo di una stretta vallata per ora ancora senza strada che confina con la catena dello Zanskar. E` un punto di sosta di un popolare trekking di sei giorni che va da Lamaruyu ad Alchi. Io sono arrivata dopo un’ora di auto da Leh e tre ore circa di cammino da Chiling. Una bella passeggiata solo lievemente in salita che fiancheggia un piccolo torrente intorno a cui crescono diversi tipi di fiori e bacche arancione.
Il motivo della mia visita era di vedere come il monastero, che risale all’XI secolo e che era in semirovina, è stato salvato grazie all’intervento di un’organizzazione non governativa gestita dal discendente della famiglia reale del Ladakh, Jigmed Namgyal. Un architetto di Delhi, Ajaydeep Singh Jamwal è uno dei responsabili dei lavori che sono ora concentrati sulla struttura. Stanno rifacendo il tetto che in parte era crollato dopo un anno particolarmente piovoso e in parte era stato riparato con dei materiali di fortuna. Con gli anni si erano anche accumulati quintali di fango e detriti che prima o poi avrebbero creato il collasso dei muri perimetrali. Il tesoro di questo piccolo gompa, che presenta una base rettangolare e due piccole “cappelle” laterali, come molti altri monasteri tibetano -buddista , sono gli stucchi che occupano tre pareti al fondo nel sancta santorum. Per estensione e per elaboratezza sono un pezzo unico di arte ladaco-hashimira. Mi hanno detto che non c`è nulla di equivalente negli altri monasteri. Gli stucchi rappresentano le varie reincarnazioni del Buddha, la cosmologia e diversi simbolismi che si trovano dei dipinti murali e nelle thangka. I colori sono accesi e risono mantenuti ancora bene, per quanto ho potuto vedere nella semi oscurità.
Sumda fa parte di una triade di monasteri, gli altri due sono Alchi e Mangyu, che ancora oggi sono meta di un famoso pellegrinaggio. Si potrebbe spiegare cosí la presenza di questo complesso di stucchi frutto del lavoro di artisti di passaggio. Ci sarebbe diversa letteratura a proposito, ma io non sono un’esperta di arte tibetana buddista e quindi mi sento abbastanza ignorante a proposito. Purtroppo qualche conoscenza in piú mi sarebbe utile a capire di più le cose che vedo nei monasteri che molti, io compresa, liquidano come “tutti uguali” . E’ evidentemente un giudizio molto semplicistico.
Lungo il cammino ho anche visto una macina in pietra azionata dall’acqua del ruscello. Era chiusa in un piccola costruzione, ho sbirciato dalle fessure della porticina. Intorno a Sumda ci sono campi di grano. E’ la loro sopravvivenza per l’inverno. Mi sarebbe piaciuto restare con il team dei restauratori accampato in un paio di stanze sotto il monastero e assaporare anche solo per un giorno la vita degli abitanti di Sumda, fuori dal mondo, eccetto che per due o tre mesi estivi. Ho incontrato anche due ragazzi francesi provenienti da Lamaruyu e diretti ad Alchi a cui si arriva attraversando il passo Stapski, uno dei tanti “cinquemila”. Si sale e scende in un giorno. Per due persone avevano ben cinque muli sovraccarichi di casse di legno, fornelli e cibarie varie. Comincio a pensare che tutto sommati questi trekking non siano così difficili…
Ritornando a Leh sono ritornata nella prima homestay, in campagna, che come prezzo (150 rupie per la singola) e pulizia è ottima. Nella guesthouse MoonLand dove sono stata per tre giorni allo stesso costo c’erano strani insetti rossi, tipo zecche, che mi hanno martoriato, a tal punto che sono stata costretta a prendere antistaminici. Da qualche giorno sono in compagnia di una mia cara amica italiana che vive a Delhi e che è arrivata in aereo con conseguente mal di altitudine che sembra inevitabile per chi arriva direttamente dalla pianura. Ma è solo questione di abitudine.