Delhi, metti una sera a Jorbagh


Gli italiani che vivono in pianta stabile a New Delhi sono circa 200 ed è quindi relativamente facile incontrarsi. Una delle occasioni più frequenti in cui si ritrova sono i ricevimenti, banchetti e feste comandate celebrate di solito nel bel prato circondato da bouganville davanti alla residenza in stile coloniale dell’ambasciatore italiano. E’ uno dei lati positivi della vita da espatriati in India. Le signore, con la pashmina ricamata di ordinanza, si scambiano le ultime dritte su dove trovare lo speck al miele o i prodotti per sgrassare i pavimenti. I rispettivi mariti discutono amabilmente con i calici in mano degli ultimi eventi politici nella madrepatria. Gli invitati indiani, con le signore in sontuosi sari, distribuiscono a piene mani biglietti da visita e raccontano i loro aneddoti di viaggio davanti alla Fontana di Trevi o sotto il Vesuvio. Il buffet è rigorosamente italiano con prelibatezze tipo mozzarella di bufala fresca o parmigiano reggiano.
Ieri sera mi trovavo in una di queste riunioni conviviali organizzate da una giovane diplomatica per inaugurare la sua nuova casa che si trova a Jorbagh, uno dei quartieri più aristocratici e anche più cari del Sud di Delhi. In passato era l’unico posto dove risiedevano gli stranieri, adesso è diventato un po’ decadente. La casa, molto accogliente, con un piccolo giardino davanti, è stata ristrutturata con parquet e serramenti moderni. Dopo una certa ora erano arrivati così tanti invitati che si faceva fatica a passare per andare a prendere il cibo cucinato sul momento nel retro dello stabile sotto un tendone bianco. Il “catering” arrivava da un noto ristorante di Delhi gestito da un’amabile signora, Ritu, che ha passato una decina di anni in Italia e che ora si è ricavata un lucroso business gastronomico con gli italiani. Ha perfino aperto un ristorante all’interno del centro culturale italiano. Gli invitati erano vari e così anche gli argomenti di discussione. Con un sacerdote polacco diplomatico della Santa Sede ho parlato di un viaggio in auto che ha fatto in comitiva da Kathmandu a Lhasa. A fianco un ex generale indiano in pensione, che aveva combattuto due guerre contro il Pakistan, stava scambiando opinioni su Musharraf con un diplomatico italiano a suo agio in un salwar kamize chiaro con gilè di khadi. Davanti al prosciutto cotto affumicato al miele ho invece parlato di medicina omeopatica con la moglie di un altro diplomatico che ora si trova a Roma, ma che è stato in India per tre anni. Un quarantenne impiegato dell’ambasciata mi ha poi raccontato della sua nuova vita di coppia con una modella africana conosciuta qui e sposata la primavera scorsa. Ho quindi concluso la serata gustando salsa calda di cioccolato sul gelato vaniglia e discettando di fotografia digitale con un amico sikh che insegna italiano e che occasionalmente lavora come interprete quando ci sono le delegazioni dall’Italia. Tornando a casa con lo scooter, rabbrividendo nella prima foschia invernale, ho imboccato l’Aurobindo Marg, deserta e costeggiata dai cantieri della nuova metropolitana. Ho cercato le sagome nere distese lungo il marciapiede davanti al mercato INA. Erano là come sempre.

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