Qualche banalità sul traffico a New Delhi
Quando sono incastrata in quell’ammasso mostruoso di lamiere, pneumatici e carne umana che dopo le sei del pomeriggio si coagula sull’asfalto delle tangenziali di Delhi, penso di avere la certezza dell’esistenza di dio. Perché solo un demonio, un anti Cristo, potrebbe causare una tale devastazione dell’habitat umano. Lamentarsi del traffico cittadino è banale a qualsiasi latitudine uno si trovi. Figuriamoci poi in un paese di un miliardo e oltre cento milioni di abitanti. Anche se per fortuna sono ancora pochi coloro che si muovono su quattroruote. Ma anche un’esigua minoranza di auto è sufficiente a mandare in tilt la circolazione già difficoltosa per la mancanza di segnaletica, per le voragini nella carreggiata e per la massa dei disperati a due, (tre) o quattro gambe.
D’altra parte in questi giorni a Delhi c’è una coincidenza di eventi da far tremare le vene anche alla più efficiente delle polizie municipali. L’altra sera si sono celebrati 20 mila matrimoni. Nel principale stadio della città si svolge uno degli interminabili tornei di cricket con il Pakistan. Al Pragati Maidan, il complesso fieristico di Delhi, è in corso una mostra nazionale sull’artigianato che è richiama fiumi di visitatori. Al quadro vanno aggiunte le delegazioni dall’estero e l’attività diplomatica consueta per una capitale. La prossima settimana per esempio si terrà il summit tra India e Unione Europea. In più era scattato anche l’allerta anti terrorismo dopo gli attentati in Uttar Pradesh.
Ad ogni stagione invernale, dopo le promozioni festive del Diwali, il parco auto cresce in quantità e qualità. Oggi, nei pressi del Lodhi Garden, ho visto due - ben due – Porsche Cayenne che sono sfrecciate davanti al mio scooter Hero Honda, tanto per dare un contentino pubblicitario anche al maggiore produttore di due ruote indiano. Un po’ di tempo fa ho visto un bolide della Ducati sempre nella stessa zona dove è concentrata la “high-class” delhita. Il prossimo anno la Tata inizierà a produrre la sua “mini car” che vorrebbe vendere a 100 mila rupie, meno di 2000 euro e che diventerà la Cinquecento degli indiani. Le vecchie e aristocratiche Ambassador, le “auto blu” dei funzionari statali indiani, andranno in soffitta o serviranno per portare a spasso turisti nostalgici dell’India-che-fu. Le nuove utilitarie intaseranno i mega caselli all’americana che sono in costruzione lungo le strade di accesso a Delhi. Sicuramente inquineranno un po’ - ma non tanto come le nostre vecchie Cinquecento perché vanno già a benzina verde - ma faranno la felicità di milioni di famiglie che non saranno più costrette ad ammassarsi in 4 o 5 su una moto con la testa del neonato che sporge paurosamente dalle braccia della madre.
E’ confortante sapere che cresce l’interesse dell’industria indiana per motori ad energia pulita anche grazie agli investimenti di stranieri che cercano di assicurarsi così i famigerati “carbon credit”. Un po’ di tempo fa ho conosciuto uno svizzero transitato da Delhi con la sua auto “solare”, una sorta di trabiccolo sportivo a tre ruote attaccato ad un carrello con pannelli solari (NELLA FOTO). Lui si chiama Louis Palmer e sta facendo il giro del mondo (http://www.solartaxi.com/). Sempre a Delhi un anno fa hanno iniziato a circolare in via sperimentale delle auto all’idrogeno e da alcuni mesi c’è una promozione battente di scooter elettrici costruiti con tecnologia europea. Proprio oggi ne ho visto uno al Pragati Maidan, realizzato da un gruppo tecnologico indiano che si chiama SAR e che sarà presto in vendita a 29 mila rupie (una rupia oggi è circa 58 euro). Certo il problema è l’autonomia, che è solo di 5 ore. Bisognerebbe creare una sorta di “distributori di corrente” in strada, ma temo che per caricare le batterie ci voglia molto più tempo che fare un pieno.
POST SCRIPTUM:
il giorno dopo aver scritto questo post ho letto che ogni giorno a Delhi ci sono 1000 nuove immatricolazioni di auto!
Cucinotta, tette in mostra contro la fame
La scorsa settimana Maria Grazia Cucinotta, nominata dal Pam, il Programma Alimentare Mondiale “ambasciatrice contro la fame nel mondo”, è arrivata in India per visitare alcuni distretti tribali del Madhya Pradesh dove l’agenzia assiste la popolazione. Benissimo che la fame in India, anche se non è così grave come nell’Africa subsahariana, salga alla ribalta della cronaca grazie all’attrice italiana che gli indiani conoscono soprattutto per la sua partecipazione nel film il Postino. Però si è dimenticata che l’India non è l’Italia, anche se i due Paesi iniziano con la “i”, e che qui non è necessario (non ancora) per le donne mettere in mostra tette e culi per passare sui giornali. Alla conferenza stampa tenuta a Delhi il 16 novembre, la Cucinotta indossava un elegante abito nero con una vistosa scollatura sul seno. Bello, se fosse stata alla Croisette. Invece era in un Paese di un miliardo e passa di persone, di cui un terzo vive con un dollaro il giorno e che con il costo degli orecchini che lei indossava potrebbe vivere un anno intero. Poteva anche andare bene se era ad una festa di Bollywood, tra le dive del cinema indiano che sono altrettanto sensuali. Ma il suo compito qui era di sollevare l’attenzione sulla “fame”. E’ evidente che i quotidiani indiani abbiano parlato molto più del suo sex appeal che della miseria del Madhya Pradesh. Come stupirsi? D’altronde gli uffici del Pam sono a Roma.
Delhi, metti una sera a Jorbagh
Gli italiani che vivono in pianta stabile a New Delhi sono circa 200 ed è quindi relativamente facile incontrarsi. Una delle occasioni più frequenti in cui si ritrova sono i ricevimenti, banchetti e feste comandate celebrate di solito nel bel prato circondato da bouganville davanti alla residenza in stile coloniale dell’ambasciatore italiano. E’ uno dei lati positivi della vita da espatriati in India. Le signore, con la pashmina ricamata di ordinanza, si scambiano le ultime dritte su dove trovare lo speck al miele o i prodotti per sgrassare i pavimenti. I rispettivi mariti discutono amabilmente con i calici in mano degli ultimi eventi politici nella madrepatria. Gli invitati indiani, con le signore in sontuosi sari, distribuiscono a piene mani biglietti da visita e raccontano i loro aneddoti di viaggio davanti alla Fontana di Trevi o sotto il Vesuvio. Il buffet è rigorosamente italiano con prelibatezze tipo mozzarella di bufala fresca o parmigiano reggiano.
Ieri sera mi trovavo in una di queste riunioni conviviali organizzate da una giovane diplomatica per inaugurare la sua nuova casa che si trova a Jorbagh, uno dei quartieri più aristocratici e anche più cari del Sud di Delhi. In passato era l’unico posto dove risiedevano gli stranieri, adesso è diventato un po’ decadente. La casa, molto accogliente, con un piccolo giardino davanti, è stata ristrutturata con parquet e serramenti moderni. Dopo una certa ora erano arrivati così tanti invitati che si faceva fatica a passare per andare a prendere il cibo cucinato sul momento nel retro dello stabile sotto un tendone bianco. Il “catering” arrivava da un noto ristorante di Delhi gestito da un’amabile signora, Ritu, che ha passato una decina di anni in Italia e che ora si è ricavata un lucroso business gastronomico con gli italiani. Ha perfino aperto un ristorante all’interno del centro culturale italiano. Gli invitati erano vari e così anche gli argomenti di discussione. Con un sacerdote polacco diplomatico della Santa Sede ho parlato di un viaggio in auto che ha fatto in comitiva da Kathmandu a Lhasa. A fianco un ex generale indiano in pensione, che aveva combattuto due guerre contro il Pakistan, stava scambiando opinioni su Musharraf con un diplomatico italiano a suo agio in un salwar kamize chiaro con gilè di khadi. Davanti al prosciutto cotto affumicato al miele ho invece parlato di medicina omeopatica con la moglie di un altro diplomatico che ora si trova a Roma, ma che è stato in India per tre anni. Un quarantenne impiegato dell’ambasciata mi ha poi raccontato della sua nuova vita di coppia con una modella africana conosciuta qui e sposata la primavera scorsa. Ho quindi concluso la serata gustando salsa calda di cioccolato sul gelato vaniglia e discettando di fotografia digitale con un amico sikh che insegna italiano e che occasionalmente lavora come interprete quando ci sono le delegazioni dall’Italia. Tornando a casa con lo scooter, rabbrividendo nella prima foschia invernale, ho imboccato l’Aurobindo Marg, deserta e costeggiata dai cantieri della nuova metropolitana. Ho cercato le sagome nere distese lungo il marciapiede davanti al mercato INA. Erano là come sempre.
Ieri sera mi trovavo in una di queste riunioni conviviali organizzate da una giovane diplomatica per inaugurare la sua nuova casa che si trova a Jorbagh, uno dei quartieri più aristocratici e anche più cari del Sud di Delhi. In passato era l’unico posto dove risiedevano gli stranieri, adesso è diventato un po’ decadente. La casa, molto accogliente, con un piccolo giardino davanti, è stata ristrutturata con parquet e serramenti moderni. Dopo una certa ora erano arrivati così tanti invitati che si faceva fatica a passare per andare a prendere il cibo cucinato sul momento nel retro dello stabile sotto un tendone bianco. Il “catering” arrivava da un noto ristorante di Delhi gestito da un’amabile signora, Ritu, che ha passato una decina di anni in Italia e che ora si è ricavata un lucroso business gastronomico con gli italiani. Ha perfino aperto un ristorante all’interno del centro culturale italiano. Gli invitati erano vari e così anche gli argomenti di discussione. Con un sacerdote polacco diplomatico della Santa Sede ho parlato di un viaggio in auto che ha fatto in comitiva da Kathmandu a Lhasa. A fianco un ex generale indiano in pensione, che aveva combattuto due guerre contro il Pakistan, stava scambiando opinioni su Musharraf con un diplomatico italiano a suo agio in un salwar kamize chiaro con gilè di khadi. Davanti al prosciutto cotto affumicato al miele ho invece parlato di medicina omeopatica con la moglie di un altro diplomatico che ora si trova a Roma, ma che è stato in India per tre anni. Un quarantenne impiegato dell’ambasciata mi ha poi raccontato della sua nuova vita di coppia con una modella africana conosciuta qui e sposata la primavera scorsa. Ho quindi concluso la serata gustando salsa calda di cioccolato sul gelato vaniglia e discettando di fotografia digitale con un amico sikh che insegna italiano e che occasionalmente lavora come interprete quando ci sono le delegazioni dall’Italia. Tornando a casa con lo scooter, rabbrividendo nella prima foschia invernale, ho imboccato l’Aurobindo Marg, deserta e costeggiata dai cantieri della nuova metropolitana. Ho cercato le sagome nere distese lungo il marciapiede davanti al mercato INA. Erano là come sempre.
Diwali in rosa shocking a Jaipur
Per la festa induista delle luci, il Diwali, sono stata a Jaipur, la "città rosa" alle porte del deserto del Rajasthan, una delle mete turistiche indiane più sfruttate per la sua vicinanza con New Delhi, "appena" sei ore di auto e per il suo nobile passato. Il Rajasthan è la terra dei Maharaja ed è la cartolina per eccellenza dell'India con tutti gli stereotipi a cui siamo abituati. Vacche sacre, elefanti, incantatori di serpenti e tessuti dai colori sgargianti. Tutto ancora autentico, per carità, sapori e odori compresi. Solo che ci si chiede come Jaipur e le altre città faranno a resistere al rapido avanzare del nuovo progresso indiano, ai mega centri commerciali, alle nuove arterie stradali e all'improvvisa ricchezza che ha fatto esplodere i consumi e le aspirazioni di una minoranza di fortunati.
Da una terrazza dei nuovi palazzi residenziali con ascensore e mega vasche da bagno angolari, ho ammirato lo skyline illuminato di Jaipur la sera dei Diwali quando migliaia di botti, mortaretti e fuochi di artificio illuminavano il cielo. Oltre alla torre del vecchio ristorante girevole, spiccavano i nuovi simboli di vetro cemento del boom indiano. L'India sta recuperando in fretta l'abissale divario esistente con i suoi vicini del Sud-est e con la Cina. Tra una decina di anni il volto di New Delhi e di Mumbai sarà irriconoscibile. "L'appuntamento con il destino" citato 60 anni fa da Jawaharlal Nehru nel suo discorso della mezzanotte davanti all'Assemblea Costituente è ormai sotto gli occhi di tutti. Anche della grande massa degli emarginati che dormono sui marciapiedi o mendicano davanti ai bus "deluxe" che scaricano le comitive di stranieri davanti al forte di Amber. Qualcosa sta cambiando anche per loro, certo più lentamente, ma la ruota sta "girando" anche per costoro.
Il celebre ed ultra publicizzato Palazzo dei Venti, il Maha Mahal, è stato ridipinto di fresco di un rosa shocking. Un po' troppo pacchiano si direbbe, tanto che sembra un fondale di cartapesta come quello che sormonta la strada di Tripolia Bazar sponsorizzato dai commercianti per la festa di Diwali. Sul marciapiede opposto, dove è obbligatorio spostarsi per scattare le foto, i negozianti parlano in perfetto italiano e sanno imitare ogni inflessione dialettale nostrana. Anni di esperienza e furbesca indole asiatica. "Non ti preoccupare, qualche giorno e diventerà rosa antico" rassicura uno di loro che mi ha venduto per 50 rupie una t-shirt con la scritta Rajasthan sotto una caravana di cammelli.
Da una terrazza dei nuovi palazzi residenziali con ascensore e mega vasche da bagno angolari, ho ammirato lo skyline illuminato di Jaipur la sera dei Diwali quando migliaia di botti, mortaretti e fuochi di artificio illuminavano il cielo. Oltre alla torre del vecchio ristorante girevole, spiccavano i nuovi simboli di vetro cemento del boom indiano. L'India sta recuperando in fretta l'abissale divario esistente con i suoi vicini del Sud-est e con la Cina. Tra una decina di anni il volto di New Delhi e di Mumbai sarà irriconoscibile. "L'appuntamento con il destino" citato 60 anni fa da Jawaharlal Nehru nel suo discorso della mezzanotte davanti all'Assemblea Costituente è ormai sotto gli occhi di tutti. Anche della grande massa degli emarginati che dormono sui marciapiedi o mendicano davanti ai bus "deluxe" che scaricano le comitive di stranieri davanti al forte di Amber. Qualcosa sta cambiando anche per loro, certo più lentamente, ma la ruota sta "girando" anche per costoro.
Il celebre ed ultra publicizzato Palazzo dei Venti, il Maha Mahal, è stato ridipinto di fresco di un rosa shocking. Un po' troppo pacchiano si direbbe, tanto che sembra un fondale di cartapesta come quello che sormonta la strada di Tripolia Bazar sponsorizzato dai commercianti per la festa di Diwali. Sul marciapiede opposto, dove è obbligatorio spostarsi per scattare le foto, i negozianti parlano in perfetto italiano e sanno imitare ogni inflessione dialettale nostrana. Anni di esperienza e furbesca indole asiatica. "Non ti preoccupare, qualche giorno e diventerà rosa antico" rassicura uno di loro che mi ha venduto per 50 rupie una t-shirt con la scritta Rajasthan sotto una caravana di cammelli.
Diario indiano
Sono sei anni che respiro gli odori dell'India, per ricordare il famoso libro-diario di Pasolini. A parte la mia città natale, Chivasso, la città piemontese della Lancia, questa è la mia permanenza più lunga sullo stesso lembo di suolo di questo pianeta.
Con New Delhi condivido un rapporto di odio amore. Adoro il giallo dei suoi laburni nelle strade che fanno pendant con i manghi sulle bancarelle. Ma non sopporto più i continui black out, i commercianti disonesti che tentano di fregarti e gli enormi sputi di pan che ricoprono muri e marciapiedi.
L'India non mi è più tanto misteriosa, ma mi stupisce e mi incuriosisce ancora ogni giorno. E' un mosaico difficile da comprendere, ho collezionato tante tessere, ma non riesco ancora a mettere a fuoco l'immagine. Come il venditore di perline nella foto che ho scattato nel bazar di Chandi Chowk - quello che rimane del giardino creato dalla principessa moghul Jahanara - anch'io ogni giorno raccolgo in un sacco i frammenti di colore di questo Paese. Senza mai riempirlo. All'infinito.
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