MEDIA/Guerra, quando la pubblicità è indecente

Sappiamo tutti che senza pubblicità i giornali non possono sopravvivere. E' già un miracolo se la carta stampata riesca a campare con paginate di inserzioni. Però ci dovrebbe essere un limite, non al contenuto, ma al posizionamento.Per esempio, trovo indecente che sotto un articolo di cronaca sui bombardamenti a Beirut compaia una pubblicità che celebra il confort domestico. E' quello che ieri succedeva sul Corriere della Sera. Titolo: Raid nel cuore di Beirut: nove morti. Israele espande le operazioni a Sud. Sotto l'articolo campeggia lo slogan Joyful Living (Vivere felici, sarebbe più o meno) e una gioiosa ragazza in minigonna tranquillamente seduta in salotto.


Un accostamento decisamente di cattivo gusto che la dice lunga di quanto siamo assuefatti alle notizie di massacri, bombardamenti, morti, ecc.  Sono convinta che nel "cuore" di Beirut, non siamo a Gaza, probabilmente esistono salotti simili con prodotti disegnati dalla marca italiana in questione. E anche gli occupanti di questi salotti potevano forse praticare il joyful living prima delle "operazioni" di Israele (da notare il linguaggio rispettoso del Corsera).    

Manzoni/ L'epitaffio per la figlia Matilde privata delle virtù del sesso

 Siena,  2 settembre 2024

   Ma cosa intendeva Alessandro Manzoni quando ha scritto sulla tomba della figlia Matilde che "lasciava desiderio di sè per una vita bella di tutte le virtù che sublimano il sesso". Ho riletto i versi dell'epigrafe almeno tre volte, confusa e un po' scioccata. Sublimazione del sesso? Ma che voleva dire? Che la figlia Matilde, morta di tisi "nell'ultimo anno del quinto lustro" (quindi a 25 anni), nubile e ancora vergine, anelava a una vita da cortigiana?  Penso che Manzoni intendeva il sesso femminile, ovviamente, però il verso non è di quelli migliori usciti dall'illustre autore dei Promessi Sposi.  

La tomba di Matilde Manzoni nel convento della basilica di Santa Maria dei Servi a Siena 

   Ho scoperto la tomba di Matilde Manzoni, ultima dei nove figli del grande scrittore lombardo, totalmente per caso a Siena, nel chiostro della basilica di Santa Maria dei Servi, che sorge appunto in piazza Manzoni.  I frati mi hanno dato ospitalità per una notte nella foresteria dopo aver presentato le "credenziali" di pellegrina sulla via Francigena. Nel fantastico convento medioevale, mentre aspettavo di essere accompagnata nel dormitorio, mi sono imbattuta in questa lapide con questa bizzarra iscrizione attribuita a Alessandro Manzoni. 

   La tomba mi ha intrigato e ho fatto un po' di ricerca. La povera Matilde fu praticamente abbandonata dal padre, lo si conosce dai suoi diari (pubblicati nel 1992 da Adelphi con il titolo Journal, a cura di Cesare Garboli). Orfana di madre ad appena tre anni, chiusa in un convento di clausura fino a 16 anni e poi portata da una sorella in Toscana, la povera Matilde è morta il 30 marzo 1856 senza vedere il padre che manco rispondeva alle sue lettere. Era malata da ben quattro anni e Manzoni lo sapeva. L'ha fatta tumulare nel convento insieme a una sua nipotina morta prematuramente. 

  Nel febbraio 1855, un anno prima di morire tra le braccia della sorella Vittoria,  scriveva nel suo diario:  "Ho avuto gran momenti di malinconia, te lo confesso, m’ero proprio scoraggiata, […] Pensavo tante volte: quando starò peggio, scriverò a papà che per carità venga, non posso proprio morire senza rivederlo e senza che mi conforti colle sue parole e la sua benedizione!...Vero, caro papà che se dovessi star male tu verresti?» (febbraio 1855).


FILM/ Guarapo, quando i migranti clandestini partivano dalle Canarie

Santa Cruz de Tenerife (Canarie Occidentali), 23 marzo 2024

    Coltivo un piacere quasi perverso per i cinema d'essay. Stanno scomparendo come ghiaccio al sole, ma quando ne trovo uno mi ci fiondo come se non ci fosse un domani.  Ieri ero appena arrivata con la mia barca a vela Maneki alla marina di Radazul, nel nord di Tenerife, a dieci chilometri dalla sua capitale Santa Cruz. Nella mia isola preferita, La Gomera, non ci sono cinema, quindi ogni volta mi trovo in una grande città la prima cosa che faccio è cercare una sala cinematografica. A Santa Cruz di Tenerife ho trovato il "Price Prime", sulla rambla, in pieno centro, sopravissuto miracolosamente alle multisale degli shopping mall. Un tizio che gentilmente mi ha caricato mentre facevo autostop (il bus non passava e non volevo perdermi la proiezione) pensava fosse chiuso da tempo e non si ricordava manco dove fosse. Il che non ha fatto che aumentare il mio godimento. 

   Il Price Prime è in calle Salamanca, ha una facciata Anni Settanta e trasuda quell'aria retrò che promette davvero bene per un cinema di qualità. Per un colpo incredibile di fortuna in cartellone c'era una pellicola del 1989, "Guarapo", che racconta una storia ambientata proprio a La Gomera. Un segno del destino, un film sulla mia isola preferita e che film! Non ho alcuna idea perchè nella programmazione del Price Prime vi è  un film di ben 25 anni fa. Forse è rimasto in cartellone dall'inaugurazione della sala oppure è sponsorizzato dall'ufficio turistico, visto che fa vedere La Gomera in tutto il suo splendore. 

La locandina del film
  Ancora incredula compro immediatamente il biglietto (8 euro), non si sa mai che vadano esauriti, mi armo di pop corn e entro nella sala di proiezione. Sola, ero sola, praticamente una proiezione privata. Questa è la realtà dei cinema d'essay, quello di Las Palmas, a Gran Canaria, ha chiuso per il Covid e non ha mai riaperto, e questo ha i mesi contati, penso tra me e me sgranocciando il pop corn.  

   "Guarapo" è un film che non esiterei a definire neorealista. E' dei fratelli Teodoro e Santiago Rio, "padri del cinema canario", sconosciuti fuori dell'arcipelago, che all'epoca avevano realizzato una trilogia sulla storia delle isole, in particolare sui problemi sociali. Una cosa di super nicchia, da vecchi intellettuali di sinistra, impensabile ai giorni nostri. La storia racconta di come si viveva a La Gomera sotto il franchismo e in particolare quando la vita sociale e economica era dominata dai latifondisti in combutta con il potere militare e la Chiesa. Per i poveri braccianti, come Benito, detto Guarapo perché era particolarmente abile a estrarre la linfa delle palme canarie che serve per fare uno sciroppo dolce e anche un liquore, non c'erano speranze di migliorare la propria esistenza se non quella di emigrare clandestinamente in America Latina. E' il destino di molti giovani che nel Dopoguerra attraversarono l'Atlantico in  cerca di fortuna, in Venezuela soprattutto, e che non sono mai più tornati. Il film è dedicato a questi migranti che furono costretti ad abbandonare le loro famiglie per fuggire alla miseria e a una vita di angherie e sopraffazioni. Descrive una povertà e disagio sociale simile a quello del mezzogiorno italiano. In "Guarapo" c'è una famiglia ricca, quella di don Luis Ventura, che ha un potere assoluto sui contadini che lavorano nelle piantagioni di banane (e anche sulle loro mogli), un parroco corrotto, un commissario di polizia alcolizzato e la repressione franchista che eliminava i dissidenti e proibiva l'immigrazione. Le scene sono ambietate nei luoghi più suggestivi della isola, come erano tre decenni fa prima dell'arrivo del turismo. Bellezze da brivido che ancora oggi esistono come alcuni sentieri che ho riconosciuto della foresta del Cedro e dei dirupi intorno al Roque de Agando. Il "silbo", il fischio che i gomeri usano (ancora oggi) per comunicare da una valle all'altra, è onnipresente ed è usato come linguaggio criptato per aiutare il ribelle Guarapo a fuggire alla polizia e a imbarcarsi su una goletta diretta in Venezuela.

   Non è ovviamente un film da Oscar, ma per chi conosce La Gomera, i suoi paesaggi e le sue tradizioni, è assolutamente da vedere. Non ci sono i sottotitoli, ma lo spagnolo è abbastanza comprensibile anche se è dialettale. Ma ancor più rilevante è la sua documentazione di un immigrazione che oggi è presente ma in senso contrario. Migliaia di Guarapo africani in questi anni sono approdati sulle coste canarie con dei barconi pagati a caro prezzo, anche loro in fuga da miseria e dittature, lasciando indietro le loro radici, amori, legami familiari. Stessi disperati ma su un'altra sponda dell'Atlantico.